Herbert Ernst Karl Frahm nacque a Lubecca il 18 dicembre 1913 e assunse il nome con cui tutti lo conosciamo, Willy Brandt, durante il soggiorno in Norvegia in seguito alla presa del potere ad opera di Hitler e alla messa fuori legge del suoi partito.
Nulla gli fu risparmiato: nessun insulto, nessuna cattiveria, nessuna forma di intransigenza e di barbarie.
Fu giovane negli anni del nazionalsocialismo, fu costretto a fuggire per fare stabilmente ritorno in Germania solo a guerra finita, divenne sindaco di Berlino negli anni in cui venne costruito il muro della vergogna e dell’infamia, aprì ai paesi dell’Est con l’iniziativa rivoluzionaria dell’Ostpolitik ma non fu capito. Venne sempre considerato un debole, un traditore, un illegittimo, una personalità cedevole e priva del dovuto spessore, lui che, al contrario, era un gigante, in grado di traghettare la Germania verso la modernità e di restituirle il ruolo che merita in Europa e nel mondo, ad esempio inginocchiandosi, nel ’70, nel ghetto di Varsavia che i nazisti avevano distrutto.
Nemmeno il Nobel per la Pace, di cui fu insignito nel 1971, gli risparmiò l’accanimento degli oppositori più feroci, pure nel suo stesso partito, al punto che il 6 maggio 1974 si dimise, anche perché il suo braccio destro, Günter Guillaume, venne coinvolto in un brutto scandalo legato allo spionaggio, essendo quest’ultimo un agente segreto al servizio della Stasi.
Brandt ha pagato quasi sempre per colpe non sue, vivendo sulla propria pelle tutti i grandi diluvi del “Secolo breve”, compresa la Guerra civile spagnola che seguì come inviato speciale.
Lo stroncò un tumore all’intestino che gli fu diagnosticato quando ormai non c’era più nulla da fare. Se ne andò a 78 anni, l’8 ottobre 1992, venticinque anni fa, dopo aver realizzato il sogno di vedere finalmente la Germania riunita.
Oggi sappiamo, e molti gli riconoscono, che questo sogno sarebbe rimasto tale senza la sua passione civile, il suo impegno politico e la saggezza delle sue scelte quando ebbe l’onore di guidare il Paese.
Molti oggi sanno e riconoscono, insomma, ciò che Brandt ha sostenuto per tutta la vita, ossia che la storia non conosca la parola “mai”.