“Volevamo solo raccontare il Venezuela da tutti i punti di vista, senza posizioni preconcette. Ma non abbiamo potuto finire il nostro lavoro. Ci hanno teso un’imboscata, volevano incastrarci”.
Non hanno dubbi Roberto Di Matteo, giornalista freelance e collaboratore de “Il Giornale” e il collega svizzero Filippo Rossi che ieri in Federazione nazionale della stampa, insieme al segretario Raffaele Lorusso, hanno raccontato le ore di prigionia trascorse in Venezuela.
Insieme al venezuelano Jesus Médina sono stati fermati dalla polizia del carcere di Torocon con l’accusa di aver introdotto materiale audiovisivo non autorizzato.
Imputazioni false, secondo i giornalisti i quali hanno ribadito che la visita nella struttura carceraria era organizzata proprio per acquisire materiale per il reportage.
“Il direttore ci aspettava all’ingresso – ha sottolineato Di Roberto – e dopo averci accolti con affabilità ci ha portati in un ufficio, dove ci hanno fatto aprire i nostri zaini. A quel punto ci hanno dichiarato in stato di arresto con l’accusa di aver tentato di introdurre illegalmente del materiale audiovisivo. Ma noi quegli apparecchi per registrare non li avevamo occultati: erano previsti, come da accordi presi in precedenza con lo stesso carcere, per realizzare le interviste”.
Insomma, quando sono arrivati nel penitenziario tutti sapevano benissimo chi erano e per quale motivo erano lì.
Dopo essere stati per molte ore in una cella dell’area centrale del carcere di Torocon sono stati affidati alla Guardia Nazionale Bolivariana “che ci ha trattato bene, dandoci anche da mangiare” ha precisato Rossi.
Nel corso della conferenza stampa i due reporter hanno parlato della situazione nel Paese e di quanto avevano potuto vedere con i propri occhi all’interno del carcere essendo rinchiusi, in pessime condizioni igienico-sanitarie, in una struttura posta su una collina che affacciava sul blocco centrale del penitenziario.
“Torocon non è un carcere normale, è considerato un luogo di detenzione ‘aperto’, nel quale si trovano una discoteca, una piscina, un parco giochi per i bambini dei detenuti che vengono in visita, un campo da baseball, una fattoria. Un’idea, se vogliamo, rivoluzionaria, sarebbe un modello produttivo, se non fosse che è fuori controllo. Ci hanno riferito che girano armi e che una parte è controllata da un capo mafioso” ha aggiunto Di Roberto.
I due giornalisti hanno mostrato l’attestato con la sentenza del rilascio con ‘formula piena’ e hanno tenuto a sottolineare che avrebbero potuto rimanere nel Paese e continuare il reportage che volevamo realizzare, ma nessuno poteva garantirgli la sicurezza.
“Ci hanno fatto capire che la situazione non era ideale – hanno concluso Di Roberto e Rossi – Parlando con il console e gli avvocati, abbiamo alla fine deciso di tornare in Italia perche’ il governo del Venezuela non ha il controllo del territorio e probabilmente avremmo corso un rischio rimanendo lì. Potevano diventare bersaglio della malavita”.
I due reporter sono rientrati lunedì mattina a Roma con un volo da Caracas. A pagare il biglietto aereo per entrambi “Il Giornale” testata per la quale scrive da tempo Di Matteo che ha avuto parole sentite sia per il quotidiano che per le autorità italiane che hanno favorito un iter più veloce per la loro liberazione.
La situazione nel Paese, intanto, resta drammatica.
Ieri il candidato governatore dell’opposizione nello stato di Apure, nel sudovest del Venezuela, José Gregorio Montilla, è rimasto ferito alla testa da militanti pro governativi. Montilla, che è stato eletto tre volte governatore di Apure dal 1989, era pronto a presentarsi come candidato della coalizione Mud.
Secondo il quotidiano El Nacional è stato colpito da una pietra lanciata dai militanti chavisti mentre stava andando a un meeting in vista delle elezioni regionali di domenica prossima. L’automobile su cui viaggiava il dirigente oppositore, nella quale si trovava anche l’ex presidente del Parlamento, Henry Ramos Allup, è stata raggiunta da oggetti pesanti, bastoni e buste di plastico piene di escrementi mentre attraversava il ponte sul fiume Apure, poco prima dell’accesso alla capitale dello stato, San Fernando.
La tensione è sempre più alta soprattutto per le forti limitazioni che vivono tutti i venezuelani.
La popolazione è ridotta allo stremo, la maggior parte soffre la fame e riesce a malapena a garantirsi un pasto al giorno.
E le condizioni generali della qualità della vita non possono che peggiorare.
Per quanto riguarda la libertà di stampa, l’episodio di cui sono stati protagonisti Di Roberto e Rossi è l’ultimo di una serie di arresti e di espulsioni di giornalisti stranieri non graditi.
Per non parlare dei colleghi venezuelani, molti in prigione o in esilio. L’unico giornale ‘libero’ che non è ancora stato chiuso è Il Nacional.
Il resto dei media sono totalmente allineati, succubi del bavaglio venezuelano che farà di tutto per mettere a tacere ogni voce critica.