La Turchia che non si arrende al bavaglio turco torna in piazza e la polizia risponde lanciando lacrimogeni.
La repressione del diritto di manifestare si è abbattuta su un gruppo di persone che si era riunito ad Ankara per ricordare uno dei più gravi attentati terroristici delle storia moderna del Paese.
Il 10 ottobre 2015 furono uccise 102 persone in un attacco di presunti jihadisti dell’Isis, che si fecero saltare in aria durante una manifestazione di attivisti pacifisti filo-curdi nel piazzale antistante la stazione della capitale.
Per disperdere la folla, non più di 150 persone che volevano commemorare le vittime dell’attacco sul luogo dove era accaduto, le forze dell’ordine sono entrate in azione in tenuta antisommossa.
A far filtrare la notizia, anche grazie agli scatti che è riuscito a rubare prima che gli impedissero di svolgere il suo lavoro, un fotografo dell’Afp.
L’agenzia Dogan ha raccontato che alla cerimonia erano stati autorizzati a partecipare solo parenti, parlamentari e rappresentanti di organizzazioni della società civile.
Per impedire che potessero radunarsi più persone la polizia ha chiuso le principali strade del centro e, a pochi metri dalla stazione ferroviaria, è stato predisposto un imponente schieramento di polizia.
Il tutto avviene a poche settimane dalla ripresa di due importanti processi, il 25 ottobre ai giornalisti e al consiglio di amministrazione di Zaman e il 31 al corpo redazionale e ai vertici editoriali di Cumhuriyet, due delle più importanti testate di opposizione della Turchia.
Particolarmente seguito dalla stampa e osservatori internazionali il secondo processo, che vede imputate 18 persone, tra cui l’ex direttore dello storico quotidiano Can Dundar.
L’aula dove si sono svolte le 8 udienze celebrate finora è stata gremita fino all’inverosimile.
Erano presenti esponenti delle due principali formazioni politiche di opposizione, parlamentari del Partito repubblicano del popolo e del Partito democratico dei popoli, e la storica deputata dei verdi tedeschi, Rebecca Harms, accompagnata dal deputato dell’SPD Arne Lietz, da sempre impegnata per la difesa dei diritti umani.
Ma soprattutto c’erano le associazioni internazionali per la libertà di stampa come l’International Press Institute la Federazione della Stampa Europea e Reporter Senza Frontiere, con il suo segretario in Turchia Erol Onderoğlu.
La nuova ondata di repressione è favorita dallo stato d’emergenza prorogato il 19 luglio scorso e che a giorni sarà rinnovato per la quinta volta consecutiva dal 20 luglio 2016, 5 giorni dopo il tentato golpe.
La decisione del governo turco di inasprire le misure di sicurezza nel Paese, che ufficialmente è stata assunta per impedire l’infiltrazione della rete eversiva di Fethullah Gülen – ritenuto l’ideatore del tentativo di golpe – negli apparati dello Stato, serve in realtà, sostene dal primo momento l’opposizione, al presidente Recep Tayyip Erdogan a varare i famigerati decreti provvisori che non necessitano di alcun passaggio parlamentare e che vengono adottati tutte le volte che si vuole attuare una misura di repressione giustificata dalla «sicurezza del paese».
Dal fallito push ad oggi ne sono stati varati ben 26 e proprio in virtù di uno di questi sono stati epurati dalla pubblica amministrazione 160 mila dipendenti.
Quando entrerà in vigore a pieno regime la riforma presidenziale, che ha assegnato poteri esecutivi a Erdogan, non sarà più necessario lo status emergenziale perché il Sultano potrà disporre a piacimento dello strumento dei decreti determinando uno stato di emergenza permanente che limiterà ancor di più i diritti dei cittadini e degli operatori dell’informazione.
Negli ultimi quattro mesi i giornalisti finiti sotto inchiesta sono stati oltre 300, di cui 41 per avere semplicemente espresso solidarietà al quotidiano filocurdo Özgür Gündem chiuso lo scorso anno.
Le cifre della repressione della libera stampa in Turchia sono impressionanti: 171 giornalisti sono in carcere, 216 sono sottoposti a procedimenti giudiziari, 180 media sono stati chiusi, tra cui 31 canali televisivi, 5 agenzie di stampa, 62 giornali, 19 riviste, 34 radio, 29 case editrici, 23.308 giornalisti hanno perso il lavoro.
Tra i nomi più noti del mondo della cultura turca e della stampa in prigione, Nazlı Ilıcak, Şahin Alpay, Ahmet Turan Alkan e Mümtazer Türköne, tutte firme o editorialisti di primo piano come gli scrittori di fama mondiale Ahmet Altan e Mehmet Altan.
Anche il mondo accademico e quello giudiziario hanno subito repulisti a più riprese con il licenziamento di 3.979 giudici e pubblici ministeri, un terzo dei rappresentanti del potere giudiziario, e circa 150 000 dipendenti pubblici tra cui insegnanti, professori universitari e rettori.
È come se il governo turco, per citare il consigliere di Donald Trump, Steve Bannon, stesse “decostruendo l’amministrazione statale”.
Il costo umano di queste purghe è elevatissimo. Almeno 40 persone arrestate si sono tolte la vita.
La situazione carceraria in Turchia, come racconta il corrispondente di Radio Radicale da Istanbul, è disastrosa, tra le peggiori per condizioni igienico sanitarie e rispetto dei diritti umani.
Attualmente nelle prigioni turche vi sono oltre 200mila persone e il governo ha in programma di costruire altre 74 prigioni.
Il sovraffollamento ha raggiunto livelli insopportabili, come nel penitenziario di Sinçan, vicino İzmir, dove in celle che potrebbero contenere al massimo 10 detenuti sono rinchiuse 45 persone.
Il partito repubblicano del popolo denuncia che mai come in questi ultimi mesi sia in atto il peggior periodo di violazioni dei diritti umani mai registrato nel Paese, fuori e dentro le carceri. E la situazione non può che peggiorare.