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Risoluzione della Vigilanza Rai sugli “agenti di spettacolo”. Ingerenza o attestazione del ruolo del servizio pubblico?

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La Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi ha di recente approvato la “Risoluzione sull’adozione da parte della Rai di procedure aziendali volte a evitare possibili conflitti di interesse da parte degli agenti di spettacolo”. Lo scopo della Risoluzione, diretta alla Rai affinché entro 90 giorni adotti le relative delibere consiliari di recepimento e attuazione, è quello di adeguare il ruolo degli agenti di spettacolo al particolare ambito in cui si trovano a operare: il servizio pubblico radiotelevisivo, istituito per svolgere una funzione pubblica e non un’attività commerciale e a tal fine finanziato con soldi che, provenienti dalla mano pubblica o dalla mano privata, sono finalizzati nel loro complesso a realizzare l’oggetto della concessione.

In particolare la Risoluzione è volta a escludere che la produzione dei programmi trasmessi dalla Rai sia affidata ad agenti di spettacolo che rappresentino gli artisti che a qualunque titolo prendano parte ai programmi medesimi; a escludere che in uno stesso programma possano essere contrattualizzati più di tre artisti rappresentati dallo stesso agente o da altra società di cui l’agente sia socio; a escludere coproduzioni di film finanziate dalla stessa Rai, anche attraverso Rai Cinema, con società di produzioni cinematografiche di cui siano direttamente o indirettamente titolari agenti di spettacolo rappresentanti di artisti legati alla società concessionaria da rapporti contrattuali in essere per altri programmi trasmessi sui canali della stessa Rai.

L’adozione del provvedimento è stata sofferta sia all’interno (il voto all’unanimità non ha visto la partecipazione di tutti i componenti della Commissione) sia all’esterno (la stessa RAI, consultata sulla bozza di Risoluzione, ha presentato un testo del tutto alternativo); è stata salutata da alcuni come un evento epocale e da altri come un’indebita ingerenza da parte di una Commissione che andrebbe abolita per la sua inutilità. La dialettica è ricorrente e verosimilmente si concentra, di volta in volta, su profili contingenti che non sono in grado di rappresentare in sé il reale significato della Commissione di Vigilanza.  La Commissione, infatti, trova il suo senso non tanto nei singoli provvedimenti d’indirizzo (lodevolissimo quello sugli agenti), quanto nella funzione pubblica che rappresenta, rivestendo un ruolo fondamentale nel connotare la Rai come emittente di servizio pubblico, differenziandola – nettamente e ontologicamente – dalle emittenti private.

Non bisogna dimenticare che la Commissione parlamentare di vigilanza è una Commissione bicamerale; che è una Commissione non istituita dall’ordinamento domestico delle Camere ma dalla legge; che il legislatore ha persino previsto un apparato sanzionatorio in caso d’inottemperanza alle direttive della Vigilanza, sanzione peraltro dal sapore penalistico, in quanto la responsabilità chiamata in causa dalla norma è personale (il destinatario dell’eventuale sanzione sarebbe infatti non la società concessionaria, ma i suoi dirigenti – L. n. 249/97, art. 1, lett. d, n. 10)

La Commissione indica per legge la maggioranza dei membri del Consiglio di amministrazione (su sette, due eletti dalla Camera dei deputati e due eletti dal Senato della Repubblica), membri che non possono essere revocati dall’assemblea (il Ministero dell’economia) se non previo parere della stessa Commissione.

Inoltre, i membri del Consiglio di amministrazione nominati dal Governo (e quindi senza alcun intervento della Commissione di vigilanza) non possono essere revocati da chi li ha nominati e la loro revoca deve passare dalla Commissione di vigilanza, poiché l’organo parlamentare bicamerale è il garante dell’organo collegiale decisionale dell’emittente di servizio pubblico, ancorché non abbia partecipato alla nomina di alcuni suoi componenti (e ciò significa che i singoli amministratori possono legittimamente avere il proprio “editore di riferimento”, ma il Consiglio di amministrazione RAI, nella sua collegialità, ha per legge un’investitura parlamentare).

Anche la Corte costituzionale ha chiarito che il mancato coinvolgimento della Vigilanza “di conseguenza, determina un’illegittima menomazione delle  attribuzioni, che discendono dall’art. 21 Cost., del  Parlamento,  il quale  agisce,  nella  materia  del  servizio  pubblico  radiotelevisivo,  per  il  tramite  della Commissione di vigilanza” (Corte Cost n. 89/2009).

Se si considera che la RAI è concessionaria ex lege (quindi “nominata” dal Palamento); che il Consiglio di amministrazione è in massima parte nominato su indicazione della bicamerale e che ogni eventuale revoca, anche degli amministratori di nomina governativa, deve passare per la Vigilanza; che l’emittente pubblica è soggetta agli indirizzi della vigilanza parlamentare, indirizzi persino direttamente sanzionabili se disattesi; che i principali atti regolatori del servizio pubblico (Convenzione e Contratto di servizio) non possono essere varati senza il parere della Commissione, allora si deve concludere che la natura di servizio pubblico dell’attività radiotelevisiva della Rai deriva propriamente dal cordone ombelicale che la lega indissolubilmente alla funzione parlamentare nel senso che recidere il cordone implicherebbe recidere anche il ruolo istituzionale della RAI, non restando altro che la veste societaria di una qualsiasi emittente commerciale.

Ecco quindi cosa significa servizio pubblico radiotelevisivo ispirato ai principi dell’Articolo 21 della Costituzione: espletare un’attività che evochi, nei propri ingranaggi decisionali, meccanismi rappresentativi della collettività nazionale che abbiano trovato espressione in sede istituzionale mediante sistemi elettorali (gli unici idonei a governare democraticamente la dialettica maggioranza/minoranza) e che, nel Parlamento, trovi il garante del valore pluralistico della funzione assegnata.

In altre parole, le recenti e poco velate ambizioni di alcune emittenti private a ergersi a emittente di servizio pubblico (più con un occhio alle risorse pubbliche che non alla funzione pubblica) per avere un qualche fondamento dovrebbero verificare, al di là della programmazione editoriale: quale sia il loro legame con la valenza istituzionale del servizio pubblico; chi sia il loro garante circa l’indipendenza dei loro amministratori (e dei loro proprietari); quale sia la capacità di rappresentare la collettività nazionale in virtù di processi decisionali pluralistici. La Rai, tutto sommato, fa riferimento a un organo parlamentare bicamerale, che avrà tutti i limiti della politica attuale, ma rimane pur sempre un organo istituzionale, per giunta composto di rappresentanti eletti sia dalla maggioranza sia dalla minoranza.


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