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Primo sì alle quote nell’audiovisivo

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Il testo del decreto legislativo sulla promozione delle opere europee è stato varato la scorsa settimana da parte del Consiglio dei ministri e più di un commentatore si è meravigliato. Bravo Franceschini, ha tenuto botta. Potente ministro, vecchia scuola non mente. E così via. Il prode Dario, insomma, ha avuto i suoi quindici minuti di celebrità audiovisiva, per dirla con Andy Warhol. Le terribili televisioni – generaliste e non- hanno dovuto piegare in ritirata. E sì, tutto questo è vero, ma è opportuno che non si rimuova quanto è successo prima. Non si tratta, infatti, di una pur meritevole novità dell’attuale governo. Senza nulla togliere ai contemporanei, è utile ricordare che la questione delle “quote” fu già posta dalla direttiva europea del 3 ottobre 1989 (n.552), “Tv senza frontiere”. Era l’epoca della lotta per la diversità culturale che, aggiornandone riferimenti e interlocutori, ha anche oggi una forte attualità come azione permanente contro censure e omologazioni. In Italia le direttive (oltre alla 552, la n.36 del 1997) trovarono attuazione compiuta con la legge n.122 del 1998, in cui con austera semplicità si sanciva il doppio obbligo di trasmissione (più della metà del tempo mensile dei palinsesti) di film e audiovisivi italiani ed europei, nonché di produzione (10% degli introiti a carico delle emittenti private, 20% per il servizio pubblico). Anche nell’età berlusconiana (Gasparri ministro), con il Testo unico del luglio 2005 n.177, il filo non si spezza, con qualche ritocco nelle percentuali. Ma senza stravolgimenti.

E’ opportuno avere memoria, per sottolineare l’assurdità (e il tatticismo negoziale) della levata di scudi corporativa dei broadcaster. Il nuovo articolato, che rivede senza stravolgerlo troppo la prima versione ipotizzata dallo stesso titolare del Mibact, fa obbligo di riservare il 55% della programmazione all’offerta europea, esclusi notiziari e pubblicità dal 2019 (e almeno la metà è attribuita alle opere italiane), e di dedicare alla produzione dal 2019 il 12,5% (15% dal 2020) da parte dei soggetti commerciali: percentuale che diventa rispettivamente il 18,5% e il 20% per la Rai. Insomma, tanto rumore per che cosa? E’ vero che sono  inseriti nel decalogo pure i fornitori di servizi a richiesta (vedi Netflix e consimili) e che complessivamente i tetti si alzano, ma gli obblighi esistono da anni. Perché, allora, le polemiche? Forse la verità è brutale. Alle emittenti faceva comodo il silenzio, per non illuminare le troppo inadempienze in materia, cui dovrebbe dare un occhio l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Il merito di Franceschini è di avere riportato alla ribalta un tema cruciale per l’industria culturale italiana.

Attenzione. La via dell’approvazione definitiva del decreto è lastricata di ostacoli, perché la mano televisiva è sempre pronta a colpire. Servono, infatti, i pareri delle commissioni parlamentari, nient’affatto scontati. Bene hanno fatto le associazioni degli autori –a partire dall’Anac con i suoi gloriosi 65 anni – ad esprimere un appoggio condizionato al testo, che non venga reso innocuo.

Servirebbe una scelta strategica. Una parte dei proventi della ipotizzata tassa sugli Over The Top (da Google a Facebook) potrebbe essere destinata proprio al rilancio delle attività culturali, spesso allo stremo e mortificate proprio dalla legge n. 220 del 2016 sul cinema, assai spilorcia verso il mondo autoriale indipendente. E non si dica che l’era digitale toglie valore alle quote. Al contrario, ne aggiunge.


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