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Palestina, chi soffia sul fuoco

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Martedì 26 settembre nei pressi di Har Adar, colonia di israeliani benestanti poco a nord di Gerusalemme. Al controllo di sicurezza sui pendolari polestinesi, un operaio delle pulizie estrae improvvisamente un’arma e apre il fuoco. Uccide un agente della polizia di frontiera e due guardie della sicurezza civile. Un altro è gravemente ferito. Poi anche l’attentatore, Nimr Jamal, 37 anni, è ucciso dalla polizia.

Sulla stampa israeliana si parla di  un uomo disperato e violento, abbandonato dalla moglie, alla quale ha indirizzato il giorno prima di agire una lettera di scuse. Nel contesto del conflitto israelo-palestinese, sono dettagli di poca importanza. E mentre gli islamisti di Hamas elogiano l’azione come “un nuovo capitolo dell’intifada”, il premier Netanyahu e i suoi ministri si affrettano a considerarla “frutto dell’istigazione dell’Autorità nazionale palestinese».

Casi individuali a parte, per capire da dove provenga in realtà l’istigazione basterebbe accorgersi del moltiplicarsi degli insediamenti coloniali di Israele nei territori occupati. Già nel febbraio scorso la Knesset aveva approvato a maggioranza, 60 voti contro 52, una legge per ‘regolarizzare’ anche retroattivamente insediamenti e case costruite su terreni privati palestinesi. In quella occasione dal Palazzo di Vetro si era parlato di “violazione del diritto internazionale” che avrà “conseguenze legali di vasta portata per Israele”.

Ancor più duramente l’Unione europea aveva ribadito che “gli insediamenti  illegali secondo il diritto internazionale costituiscono un ostacolo alla pace e minacciano di rendere impossibile la soluzione dei due Stati”. Chiedendo “a Israele di porre fine a tutte le attività di insediamento e smantellare gli avamposti costruiti dopo il marzo del 2001, in linea con i precedenti obblighi».

La risposta è stata che un mese dopo il governo di Netanyahu ha autorizzato un nuovo insediamento. Con Trump alla Casa Bianca,  si sente ormai autorizzato ad allargare, ben oltre i confini del 1967, quella che viene definita ormai ufficialmente “la casa nazionale del popolo ebraico”.

A mettere Il timbro ha provveduto proprio ieri l’ambasciatore degli Stati Uniti a Tel Aviv, David Friedman, figlio del Premio Nobel per l’economia Milton Friedman. Intervistato da uno dei più importanti siti israeliani, Walla! News, ha dichiarato, come si dice, “papale papale”: “Gli insediamenti fanno parte di Israele”. Infischiandosi della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu approvata il 23 dicembre scorso con la benevola astensione di Obama.

In questa penosa assenza di prospettive di pace, non è difficile immaginare che, con il protrarsi della divisione tra Hamas e l’Autorità palestinese, si aggiunga alla tracotanza di Israele il rischio che ad orientare le giovani generazioni palestinesi subentrino i gruppi salafiti e le cellule “dormienti” dell’Isis. Sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza. A meno che il recente accordo tra le due fazioni con la mediazione dell’Egitto riesca finalmente ad avere, nonostante tutte le precedenti delusioni, uno sviluppo positivo.

Fonte: https://www.alganews.it/2017/10/01/palestina-soffia-sul-fuoco/


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