Le casse dal camion sparano un vento di musica reggae e tutti i ragazzi di colore ballano a tempo, contagiando anche noi italiani di supporto. Saltano con le bandiere Arci, Amnesty, Acli, Cgil e tante altre associazioni, che hanno organizzato o aderito alla manifestazione “Migrare non è reato”, contro razzismo, sfruttamento e soprattutto la criminalizzazione dei migranti. Su alcune aste brillano al caldo sole di un Ottobre estivo le coperte termiche dorate da un lato e argentate dall’altro, che molti hanno ricevuto nel primo soccorso. Ora sono trofei di sopravvivenza, che aumentano la gioia del ballo, come dire: siamo vivi, siamo qui.
C’è lo striscione della FIOM, “perché ormai questi qui – fa un metalmeccanico parlando forte per vincere il suono della musica e indicando un gruppo di colore – sono nostri compagni di fabbrica da anni”. Cambia la musica, ha un ritmo balcanico da banda stile Bergovic. Più in là c’è lo striscione dell’ANPI, tutti capelli bianchi, “dove c’è da resistere – fa una signora con fierezza – noi ci siamo sempre”. Sento odore di spinello, una folata. “Se vuoi lo Ius soli 6-1 di noi” dice un’etichetta Arci attaccata alle magliette di gruppo di ragazzi. Passano quelli di Esperienza Baobab, che continuano a sfidare le autorizzazioni pur di dare una tenda e una doccia a chi non sa dove andare. Mi urta un ragazzo nero, mi sorride per scusarsi, ha una maglietta con la scritta Pizzeria Tropicale. Molti girano video. Il corteo finalmente si muove, i cani si alzano, si stirano e iniziano a camminare con i padroni.
Sulle teste di tutti i colori galleggiano molti cartelli. “La schiavitù non è finita, ce l’hai a pochi passi da casa. No al capolarato” – “MIGRARE NON E’ REATO!” “Voi arrivate, noi partiamo: siamo tutti migranti economici” – “Integrazione = Sicurezza”. Due robuste donne nere affiancate spingono le loro carrozzine e ricevono con gioia complimenti per i loro bambini. Passa Vauro a passo svelto contro flusso, con lo sguardo fisso come se stesse cercando qualcuno. Guardo davanti e poi mi giro: il corteo è lunghissimo. In fondo vedo anche un gruppo di bandiere curde con il ritratto di Ocalan.
Penso che sia complicato, ma giusto accogliere queste persone che hanno sfidato la morte per un progetto dove serenità e felicità sono la stessa cosa. Poi, per un cortocircuito mentale mi appaiono i campi libici di concentramento, dove forse nello stesso momento in cui io sono nel corteo, donne e uomini urlano per le torture che stanno subendo. Per un attimo entro in una bolla d’angoscia che mi isola dal contesto. Scaccio l’incubo pensando alle belle persone “di frontiera” che hanno sostenuto questa manifestazione, come Don Ciotti, Camilleri e tanti semplici cittadini che sono usciti di casa per fare la cosa giusta. Non ho il tempo per seguire tutta la manifestazione. Lascio il corteo con un senso di colpa, ma mi consolano le note di un blues cardiaco suonato dal vivo che escono da un locale, mentre vado alla metro di Piazza Vittorio.
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