Danzatrice dalla vita triste, movimentata e piena di problemi, successivamente spia doppiogiochista, divisa tra Francia e Germania, sconvolta e infine travolta dalla barbarie del primo conflitto mondiale: parliamo di Margaretha Geertruida Zelle, meglio nota come Mata Hari, tragica diva della Belle époque, ossia di una stagione di sogni e sconfinate speranze che si spense per sempre con l’attentato di Sarajevo.
Non staremo qui a narrarne la biografia, i soggiorni in Indonesia e a Parigi, gli amori controversi, le passioni tormentate, gli eccessi e le pretese smodate: è patrimonio comune, al pari della sua esecuzione all’alba del 15 ottobre 1917 in quel di Vincennes. L’aspetto che ci preme raccontare di Mata Hari è, invece, il suo essere il simbolo della follia di una generazione perduta, di un mondo spintosi sull’orlo dell’abisso e infine precipitato in un baratro senza ritorno, del dramma di un’Europa che per quarant’anni visse in un contesto di pace e poi si suicidò, con la conseguenza di cedere lo scettro del dominio globale alla nascente potenza americana, finendo oltretutto vittima di colpi di Stato e regimi sanguinari che si sarebbero definitivamente esauriti solo negli anni Settanta.
Non bisogna considerare, dunque, la burrascosa figura di questa donna olandese dalla vita avventurosa e tremenda come un fatto isolato bensì bisogna inserirla all’interno di un contesto assai più vasto, comprenderla nella sua complessità ed evitare di fornire giudizi affrettati circa le sue scelte e i suoi comportamenti.
Mata Hari fu regina e vittima al tempo stesso, venne ammirata e sfruttata, lusingata e tradita, considerata con entusiasmo per la sua grande bellezza e infine abbandonata a se stessa e condannata a fare i conti con le regole di un gioco troppo duro per una ragazza semplice e affamata di successo un po’ come lo sono tutte le primedonne, quasi senza eccezioni.
Quarantuno anni e un plotone d’esecuzione come epilogo di un’esistenza vissuta sempre sopra le righe, caratterizzata da innumerevoli fughe, da strazianti addii, da illusioni e sconfitte, dal dolore e dalla sofferenza: sentimenti che nemmeno la notorietà e gli effimeri trionfi mondani riuscirono mai a lenire, meno che mai a sconfiggere, al punto che davanti ai suoi carnefici giunse una donna elegante e affamata di vita ma in realtà morta dentro, e non appaia una contraddizione, sfiancata dai troppi uomini cinici che si servirono di lei e non mossero un dito, al momento opportuno, per evitarle una sì tragica fine.
Con Mata Hari se ne andò l’ultimo brandello di poesia e di frivolezza di una stagione affogata nel fango delle trincee e sepolta per sempre dai colpi dei mortai: una stagione che non sarebbe più tornata, al pari del suo emblema dolente, vinto dalla propria ambizione ma, soprattutto, dall’inumana ferocia altrui.