L’immanenza terrena è affannata, irredimibile, lontana da inesistenti paradisi. Ne portano traccia i corpi che agiscono per allegorica suggestione in “Bestie di scena”, spettacolo inaugurale della stagione al Teatro Argentina di Roma
Secondo un preciso rituale di “teatro da attivare, da scaldare, da mettere in moto”, prima che la ‘quarta parete’ riconsegni alla messinscena il suo convenzionale argine di ‘quarta parete’, mentre il pubblico entra in sala, gli interpreti, già disparsi nello ‘spazio’ di esibizione, si concentrano, si coordinano, alternano ritmi di mimica a plastiche sospensioni quasi statuarie, disponendosi lungo assi e coordinate cartesiane di “geometrica imperfezione”. A platea ormai colma, ciascun attore provvede all’auto vestizione e rivolgere indarni sguardi agli astanti, come avvolti da una luce cromaticamente accesa ma neutra e gelida. Ammesso (e non concesso) che esista -per loro- un “donde”, un “altrove”, una “dimensione” di provenienza (sia essa banalmente amniotica o metafisica), verso cosa si addentrerà questa “nuova colonia” (e cito volutamente un titolo pirandelliano) di creature spaurite, smarrite ma non rassegnate all’immoto, al catatonico, alla paura paralizzante cui si sta rassegnando gran parte del nostro occidente?
Forse (ipotizziamo, tentando di non intellettualizzare troppo) verso quella vita -nuda, vita- cronica (irriducibile, in-arginabile, in-debellabile) come ebbe a definirla Eugenio Barba (e prima di lui Giorgio Agamben, come giustamente annota l’eccellente collega Giulia Muroni) in una sua sortita di pochi anni fa al Teatro Vascello di Roma. Intendendo con ciò quell’indefinibile ed ambiguo stato di natura (e vulnerabilità) che precede – di tanti milioni d’anni – l’altrettanta sfuggente, ambivalente condizione della comunità civilizzata, per mezzi di cultura, politica, patti sociali (sempre in bilico, in spasimo di rivolta – come insegna Camus). I quali, con altre modalità di persuasività ricattatoria e pervasività dell’emulazione, restituiranno la condizione umana – come perfetto testa coda di allettamenti ed ‘espulsioni’ – ad una nudità indifesa e violentabile, ormai segreta, inconfessabile e camuffabile dalle (corrive, indispensabili) relazioni sociali.
Larve, bacilli, vuoti a rendere, carcasse ‘animate’? Come considerare questa vice-umanità sussidiaria che si avvicenda, perseguita, strattona, solidarizza in “Bestie di scena”? In cui la cifra stilistica di Emma Dante (pur tentata dall’autocitazione, dalla reiterazione stilistica che rischia di farsi ‘maniera’) sembra ispirarsi, per attrazione degli opposti poetici, alle “raffinate, straziate, pezzenti” reverie della “morte borghese” (immaginata quasi per animate fototessere dal genio di Pina Bausch). E non più al ‘degrado’ umanitario, circondariale, ridotto alla grottesca maschera delle tipologie del sopravvivere Mpaliermu: preferibilmente relegate ai lastimi, mottetti, languide oscenità di un’indeterminazione sessuale che (memorabile il coro della sua “Medea”) si rannicchia in posture bistrate e bistrattate di femmenielli, promiscue vittime di Edipo e maschi evirati di “fallo e di pensiero”. Per antropiche sequenze di aggregazione, ripulsa, flussi e deflussi “armonizzati nel disordine” rimandano – così a noi pare – a un’ancestrale, misterica allegoria di solitudini contigue alle “monadi” – tuttavia interdipendenti nel dare e/o ricevere primario conforto e incattivita cattiveria.
Azionata da un invisibile ma ben percepibile “demiurgo” (che non è il destino, ma la ‘scalogna’ dell’essere nati, espulsi da un primario nucleo di equa appartenenza – come teorizzava Gorgia da Lentini) la promiscuità dei corpi (“senza storie da raccontare”) si catapulta in ricorse, giri in tondo, stremati cammini, mentre i respiri che sgozzano se stessi e, in assenza di orizzonte, gli occhi “che hanno visto l’orrore” vagano come a intravedere di un senso ultimo da dare a quel lungo peregrinare, dopo l’ostracismo da un Giardino dell’Eden mai esistito oppure esistito solo ai fini del campo di sterminio.
Ciascuno dei partecipanti a questa stilizzata, disperata allegoria verso la nullificazione di se stesso riesce poi, come per un residuale sentimento del ‘gioco opposto al giogo’, a catturare almeno una peculiarità drammaturgica, un tratto distintivo, un friabile (ma non etereo) “volo” di ballerina, spadaccino, scimmietta ammaestrata, pupazzetto da carillon. Avendo per sottofondo o tappeto musicale (e nell’assenza di dialoghi) la “fenditura sonora” dei Platters che – per paradosso e ‘memento’ dalla condizione umana – gorgheggiano l’ineffabile, epocale Only you.
D’ogni altra salvezza non v’è briciolo di certezza. Come già avvertivano gli automi di Lang in Metropilis, alla vigilia del nazifascismo: vistosa metafora di tutto il ‘sonno della ragione’ che, per ordine sparso, avrebbe poi reso una perenne, potenziale deportazione (espopriazione dell’ essere -morale e materiale) la condizione di chi continuava a scommettere, oltre logiche del profittevole, sulle risorse dell’umanesimo e del libero arbitrio .
Foto Masiar Pasquali
BESTIE DI SCENA
Ideato e diretto da Emma Dante
Con Elena Borgogni, Sandro Maria Campagna, Viola Carinci, Italia Carroccio, Davide Celona, Sabino Civilleri, Alessandra Fazzino, Roberto Galbo, Carmine Maringola, Ivano Picciallo, Leonarda Saffi, Daniele Savarino, Stephanie Taillandier, Emilia Verginelli, Daniela Macaluso, Gabriele Gugliara – Elementi scenici : Emma Dante luci: Cristian Zucaro direttore di palcoscenico: Gabriele Gugliara assistente di produzione: Daniela Gusmano coordinamento: Aldo Miguel Grompone
Coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Atto Unico / Compagnia Sud Costa Occidentale, Teatro Biondo di Palermo, Festival d’Avignon 13 – 22 ottobre Roma, Teatro Argentina – 27 ottobre – 5 novembre 2017 Palermo, Teatro Biondo (seguirà tournée nazionale ed europea)