Da un lato smontare le parole (e quindi il linguaggio), per mostrarne il vuoto e lo stereotipo che nascondono. Dall’altro liberarle dalle incrostazioni convenzionali, dalla violenza, dall’odio. Per poi ricostruirle di senso e significato, restituendo loro la capacità e la forza di raccontare la realtà, al riparo da schemi riduttivi e da automatismi condizionanti. E’ “la manomissione delle parole” secondo Giancarlo Carofiglio, una metafora presa in prestito per cercare di spiegare il perché del Manifesto di Venezia, che non è e non vuole porsi come una carta deontologica, che per sua natura ha un carattere impositivo e un effetto sanzionatorio.
L’approccio che si è privilegiato, tenacemente, è invece quello dell’atto volontario, dell’impegno in prima persona, del mettersi in gioco e quindi in discussione, in quanto appartenenti a una comunità, quella delle giornaliste e dei giornalisti. E si è scelto quale campo di azione la violenza contro le donne, in un momento storico in cui questo fenomeno, per dimensioni e modalità, ha assunto carattere endemico. Non solo in Italia.
Le giornaliste, i giornalisti possono/debbono fare qualcosa? Le parole non sono neutre e hanno un potere immenso nel contribuire a formare e a sedimentare la rappresentazione del mondo: come lo vediamo, come lo percepiamo, come lo comunichiamo, come lo viviamo. Usarle in maniera attenta si traduce nel recuperare il ruolo e la responsabilità sociale dell’essere giornalista, del fare il giornalista, così come sancito nella legge istitutiva dell’Ordine: la verità dei fatti, la considerazione della persona che sta, spesso suo malgrado, dentro i fatti.
Aderire al Manifesto di Venezia – “per il rispetto e la parità di genere nell’informazione, contro ogni forma di violenza attraverso parole e immagini” – significa comprendere appieno che la parola scritta, parlata e illustrata, non è una mera espressione di linguaggio, bensì un evento, un avvenimento: un gesto che incide la realtà sociale, culturale, storica, valoriale, professionale e che testimonia del soggetto che lo compie, lo smaschera.
Sottoscrivere il Manifesto di Venezia è un’azione concreta, un atto condiviso, nella convinzione che la pratica quotidiana della parola giornalistica può contribuire a modificare la rappresentazione del mondo: per questo l’informazione consapevole risulta fondamentale e deve diventare ancor più imperativo categorico. In tutti i settori.
Nessuna pretesa di limitare o di censurare la libera espressione, al contrario un contributo a superare cliché e pregiudizi, che possono aggiungere violenza a quella già vissuta da chi ha già sofferto violenza fisica e psicologica. Si tratta, va ribadito, di un impegno in prima persona, da giornalista, laddove, come ama ripetere il presidente della Fnsi, Beppe Giulietti, la sottoscrizione si fa azione. Il testo proposto è frutto di una elaborazione, maturata all’interno della Cpo della Fnsi su stimolo del Sindacato giornalisti Veneto, e arricchita dal confronto con la Cpo Usigrai e Giulia, tenendo conto dell’apporto di chi da tempo riflette, per quanto di propria competenza, sul tema: l’Accademia della Crusca sulla declinazione di genere dei termini, le associazioni di psicanalisti, psichiatri, antropologi, i centri anti-violenza.
Ciò che il Manifesto di Venezia rifiuta è la banalizzazione dell’informazione, la tentazione se non la dolosa risolutezza di ridurre tutto a una disputa linguistica, a una “roba fra donne” o fra addetti ai lavori. No. Ciò che il Manifesto di Venezia si prefigge è alimentare il contraddittorio, anche acceso, sulla sostanza: sui pro e sui contro. Il testo è un punto di partenza, non di arrivo, è un “luogo”, una “piazza” su cui misurare le inevitabili e sacrosante critiche: dallo scetticismo di chi attacca la presunta impostazione prescrittiva ai rilievi di chi esigerebbe una stesura più radicale e assertiva.
E’ una materia viva e per questo modificabile, rispetto alla quale le riflessioni di quante e quanti esercitano consapevolmente la professione andranno avanti, apportando nuovi punti di vista e arricchimenti. Quel che resterà sarà la base dalla quale si è partiti collettivamente, nella duplice veste di singoli proponenti e sottoscrittori.
Servono un salto di prospettiva, una rivoluzione culturale che, insieme alla cronaca, metta al centro dell’informazione la persona – donne, uomini, bambini, anziani, stranieri, migranti … – nel solco di quella battaglia intrapresa da tempo contro le fake news e lo hate speech, che trova naturale avvio nell’esortazione lanciata ad Assisi nel corso dell’assemblea nazionale di Articolo 21: “non scrivere degli altri quello che non vorresti fosse scritto su di te”.
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