In questi giorni l’immagine sorridente e disarmante dell’adolescente Anna Frank è stata violentata e abusata da rozzi individui, privi di morale e senza alcuna nozione di cultura, per fini indegni e razzisti. Mentre indignati esprimiamo disprezzo per questi individui vigliacchi e privi di dignità, riteniamo essenziale ripercorrere le tappe che segnarono il cammino della barbarie nazista contro gli ebrei.
Nella notte fra il 9 e il 10 novembre del 1938, in Germania e in Austria si scatenò un’onda atroce di violenze contro gli ebrei e tutti i simboli della vita ebraica. Orchestrato dal potere nazista, coordinato e messo in atto dai due gruppi di miliziani politici, SS e SA, la “notte del terrore” fu fatta passare dagli efficienti organi d’informazione e di propaganda nazista, guidati dal ministro Goebbels, come una “legittima esplosione spontanea di violenza popolare contro le mille nefandezze dei giudei”, a seguito dell’assassinio del diplomatico tedesco Ernst Vom Rath, avvenuto a Parigi il 7 novembre ad opera di un rifugiato, ebreo polacco, Herschel Grynszpan, e come naturale risposta al “pericolo di una più generale cospirazione mondiale di dominio ebraico”.
L’attentato di Parigi contro il diplomatico tedesco diviene quindi la scintilla per innescare le brutalità e gli incendi della “Notte dei cristalli”.
Dall’iconoclastia classica, come l’incendio dei libri e delle opere d’arte “giudaiche”, nei primi anni dell’ascesa di Hitler, si passa così alla distruzione dei beni materiali e dei simboli concreti come sinagoghe e negozi, per arrivare all’eliminazione fisica del “popolo reietto”, di coloro che “osarono processare e crocefiggere Gesù”, di coloro che “generarono tutti i mali del mondo”. L’annientamento fisico del “mostro semita” diventa l’imperativo categorico, non solo per le organizzazioni paramilitari naziste, ma anche per quanti, civili, intendono vendicarsi di falsi torti subiti, arricchirsi e dare sfogo al proprio odio sociale.
In quella notte furono bruciati 267 sinagoghe, 7.500 negozi ebraici, oltre un centinaio di ebrei furono uccisi e moltissime donne violentate. Le case private vennero saccheggiate e le sedi delle istituzioni giudaiche, ancora in funzione, dopo 5 anni di dittatura, furono distrutte. Ai pompieri fu dato ordine di non intervenire e gli incendi furono a fatica spenti dalla stessa popolazione ebraica con solo secchi d’acqua. Più di 30 mila persone vennero arrestate e internate nei primi campi di concentramento, come Dachau, Buchenwald e Sachsenhausen. Inoltre, come sfregio finale, l’intera comunità ebraica fu condannata a pagare una multa di 1 miliardo di marchi per i danni causati “dalla giusta reazione e collera del popolo tedesco”. I soldi vennero detratti dai 7 miliardi che erano stati confiscati nei mesi precedenti come beni e liquidi. L’odio nei confronti degli ebrei covava da sempre, in verità, e non era un fenomeno esclusivamente tedesco.
Le discriminazioni ebraiche nel resto d’Europa agli inizi del Novecento erano all’ordine del giorno. Nella Russia zarista i pogrom furono terribili. E anche dopo la Rivoluzione del ’17, molti artisti e letterati di origine ebraica non ebbero altra scelta che iniziare una vita da esuli e lasciarsi alle spalle le loro profonde radici storiche ed emozionali.
Fino al trionfo del nazismo, le caricature antisemite e gli stereotipi denigratori su questa comunità riempivano con disegni, barzellette e accuse infamanti, interi libelli e addirittura giornali dall’orientamento democratico. Per introdurci alla feroce epoca della degenerazione nazista, al “grande Male del secolo”, così come lo definì la filosofa Hanna Arendt, fra le studiose più attendibili su questo periodo storico, bisogna fare un passo indietro.
Va ripercorsa la storia della Germania, a partire dalla sconfitta della Prima guerra mondiale, con il conseguente risentimento sociale per uno spirito di nazionalismo frustrato, accentuato dal malessere per la grave crisi economica che investì l’Europa alla fine degli Anni Venti.
Per gli sconfitti tedeschi significò l’umiliazione di subire ritorsioni economiche e finanziarie mostruose: ripagare i danni di guerra per 132 miliardi di marchi; il divieto di ricostruire l’industria pesante e degli armamenti; la presenza di truppe straniere. Il risentimento nazionalista si fece sempre più forte e s’indirizzò verso un revanscismo contro le potenze alleate e poi contro gli ambienti della finanza ebraica. A seguito della crisi economica del 1922, la classe media viene penalizzata, e si fa strada in questi strati sociali la politica di rivendicazioni e di razzismo del nascente partito nazionalsocialista.
L’accento va posto sulla crisi della prima Repubblica liberale, conosciuta come Repubblica di Weimar, i cui conflitti interni degenerarono fino a favorire la nascita della dittatura di Hitler nel gennaio del 1933, dopo dieci anni di tentativi di “scalata al potere” con il suo Partito. In pochissimi mesi, tutte le organizzazioni politiche furono messe al bando e il Partito hitleriano fu decretato per legge “partito unico”. Socialisti, comunisti, liberali, pacifisti ed ebrei furono dichiarati “indesiderabili”. Intere biblioteche furono distrutte e le opere di Voltaire, Marx, Freud, Einstein, Thomas Mann e Brecht furono date alle fiamme. Tutte le manifestazioni culturali e le attività scolastiche furono messe sotto controllo dal Terzo Reich. La stampa, la radio e il cinema furono messi al servizio della propaganda nazista.
La scuola diventò così il luogo di indottrinamento ideale per la formazione della gioventù, secondo i nuovi canoni e i modelli dell’ideologia nazista, allo scopo di costruire la “pura razza ariana”.
Già dal Primo aprile del ’33, in ottemperanza della dottrina razzista contenuta nel “Mein Kampf” (scritto da Hitler nel 1924), inizia il boicottaggio delle attività commerciali e degli studi professionali ebraici. Gli ebrei vengono progressivamente allontanati dai settori della giustizia, delle forze armate, dalle università, dagli organi d’informazione, dalle scuole e dagli ospedali. Si apre il primo campo di concentramento a Dachau, vicino Monaco di Baviera, e vengono promulgate le Leggi razziali di Norimberga, per “la protezione del sangue e dell’onore tedesco”, che vietano le unioni e qualsiasi relazione sessuale tra ebrei ed ariani. La popolazione ebraica viene dichiarata ufficialmente “razza inferiore”, al disotto della piramide umana, ancor più giù degli slavi, messi già all’ultimo gradino. Gli ebrei, quindi, vengono etichettati storicamente e scientificamente come “il male assoluto”, capaci di qualsiasi nefandezza, di mimetizzarsi in diverse ideologie politiche tra loro contrastanti, come il comunismo bolscevico e il liberismo capitalistico, pur di impadronirsi delle leve economiche e finanziarie del potere mondiale.
Molteplici furono i mezzi di persuasione occulta e di propaganda intensiva, fino ad allora sconosciuti: dagli striscioni antisemiti affissi sui battelli fluviali, alle scritte gigantesche che campeggiavano sui muri dei grandi magazzini, ai cartelli dissuasivi davanti ai negozi e agli studi professionali. Le scritte recitavano assiomi del tipo: “chi compra dagli ebrei ruba il futuro del popolo”, “ebreo, visite vietate”, “non rivolgetevi agli avvocati ebrei”. Si scopre la forza subliminale dei manifesti e delle vignette caricaturali, che tratteggiano in maniera dileggiante gli ebrei con i loro abiti tradizionali di preghiera, pur di penetrare nell’inconscio collettivo del popolo tedesco “ariano”, dando concretezza alle dicerie e alle falsità storiche sui vizi e le malvagità delle comunità semitiche.
Sui documenti di identità per gli uomini ebrei viene aggiunto al nome e cognome la dizione “Israel”, mentre per le donne quella di “Sara”. D’ora in poi, oltre al simbolo “J”, che stava per giudeo, tutte le donne di religione ebraica verranno quindi identificate come Sara e gli uomini come Israele. Oltre ai diritti civili, perderanno così anche quelli della propria identità.
L’uso dei giornali, dei libelli pseudo-scientifici e della radio, sempre più invasiva, creerà il substrato ideologico nelle classi popolari per emarginare gli ebrei, che da secoli invece avevano costituito l’asse portante della cultura, delle arti, della ricerca scientifica e filosofica, e che avevano fatto della Germania un paese guida nel panorama europeo.
La “Mostra antisemita” alla Biblioteca di Monaco, allestita nel 1937, fu un evento di grande impatto. Il manifesto all’ingresso presentava la caricatura di un ebreo deforme con le mani piene di monete d’oro e la cartina dell’Europa, dominata da una falce e martello, sotto il braccio. Anche i colori colpiscono l’immaginario collettivo: il fondo giallo, la tetra figura nera, le scritte rosse con caratteri che riprendono lo stile ebraico. E’ la figura dell’“Eterno ebreo”, una sorta di viscido “mercante di Venezia” di shakespeariana memoria.
Molti ebrei cercarono di fuggire prima della piena applicazione delle norme antisemite, soprattutto gli oppositori politici e gli intellettuali più consapevoli dell’imminente pericolo. Ma la maggior parte, attaccata al proprio paese, alle loro radici tedesche, ai beni e ai ricordi, sottovalutò la determinata ferocia del nazismo, pensando che si trattasse comunque di una parentesi storica.
Non mancarono prese di posizione di grandi figure di intellettuali tedeschi, di origine ebraica, come: Leo Baeck (1873-1956), esponente di spicco dell’opposizione al nazismo e presidente dell’organismo rappresentativo della comunità giudaica, si rifiutò di lasciare la Germania e fu deportato nel campo di Terezin nel ’43, salvatosi, si trasferì negli Stati Uniti; Martin Buber (1878-1965), studioso della storia delle tradizioni ebraiche, professore di filosofia all’Università di Francoforte, rimosso dal suo incarico, divenne uno degli animatori della resistenza alla dittatura, riuscì a fuggire nel ’38 in Palestina, dove divenne uno dei leader spirituali del movimento sionista; Albert Einstein (1879-1955), grande fisico-matematico, premio Nobel nel 1921, emigrò negli Stati Uniti, dove continuò gli studi sulla trasformazione dell’energia atomica e non smise mai di occuparsi dei rifugiati, impegnandosi anche a favorire il movimento sionista per il ritorno dei sopravvissuti in Israele; Walter Benjamin (1892-1940), berlinese, il più grande critico letterario della sua epoca, studioso e teorico del marxismo, cercò si fuggire in esilio, ma nel ’40 si suicidò alla frontiera tra Francia e Spagna, disperato per la sua situazione di esule e convinto che un’altra guerra avrebbe portato alla fine della civiltà; Hannah Arendt (1906-1975), filosofa nelle principali università tedesche, lasciò la Germania per Parigi, impegnandosi nel movimento sionista e nell’impegno sociale per favorire la partenza dei giovani verso la Palestina, riparò durante la guerra negli Stati Uniti.
L’emigrazione, soprattutto verso la Palestina, divenne l’unica speranza di salvezza. Nel 1933, già 37 mila ebrei lasciarono la Germania, ma poi il ritmo degli esuli si stabilizzò su una media di 25 mila l’anno, fino al 1938 (per lo più nei paesi europei limitrofi, un quarto in Palestina, 27 mila negli Stati Uniti). Ma ben presto le misure ancor più restrittive, il blocco dei trasferimenti di fondi all’estero, la confisca dei beni, i controlli più minuziosi del ministero delle finanze, le tasse che aumentavano solo per loro, li dissuasero alla partenza.
Nel settembre del 1938, a seguito della “crisi dei Sudeti” della Cecoslovacchia e l’annessione dell’Austria, le allora grandi potenze democratiche, Francia e Gran Bretagna, sottovalutando il pericolo nazista, arrivarono ad un accordo con Hitler e Mussolini, per “pacificare” quella zona dell’Europa e creare così un “baluardo” contro l’altro pericolo economico e ideologico rappresentato dall’Unione Sovietica di Stalin e dalla eventuale diffusione del bolscevismo dentro i confini degli stati capitalistici.
Fu l’ennesima beffa diplomatica del capo nazista, che poco dopo inasprì le misure antisemite e diede inizio sia ai preparativi di guerra d’espansione, sia all’eliminazione scientifica del popolo ebraico.
Le strade delle grandi città tedesche diventano teatri di violenze e saccheggi contro gli ebrei e i loro beni, le famiglie semite costrette a cedere “spontaneamente” le loro case e convivere con altri correligionari (dei 70 mila appartamenti di proprietà, ben 40 mila furono “arianizzati”). Le deportazioni di massa si fecero sempre più frequenti e tutti i beni sequestrati vennero destinati a rimpinguare le casse del tesoro statale nazista.
E’ angosciante la visione delle foto d’archivio e dei filmati dell’epoca, consultabili da chiunque sia dubbioso sulla verità storica, che testimoniano le violenze di quei giorni, delle sinagoghe date alle fiamme e dei mille gesti di umiliazione pubblica, vere e proprie “gogne”, cui vennero sottoposti uomini, donne e bambini.
La risposta delle nazioni democratiche fu allora di circostanza. Addirittura, il leader conservatore britannico, W. Churchill, si sentì in dovere di precisare che comunque la Palestina non poteva diventare un “rifugio prioritario” per gli ebrei, anche se pietosamente il governo inglese si adoperò per l’accoglienza di gruppi di bambini ebrei. Suonano, quindi, ancora attuali e drammatiche le parole di un importante esponente dell’allora partito sionista, Haim Weizmann: “Il mondo sembra dividersi in due parti. Quelle in cui gli ebrei non possono più vivere, e altre in cui loro non possono entrare”.
La tragica odissea della nave “Saint Louis” testimonia quanto queste parole fossero veritiere: il transatlantico tedesco, salpato da Amburgo il 13 maggio 1939 con 937 passeggeri ebrei cercò inutilmente di farli sbarcare nel porto dell’Avana, a Cuba. Solo in 29 poterono rifugiarsi nell’isola caraibica. Poi la nave ritornò indietro, verso i lidi degli Stati Uniti, ma fu vietato qualsiasi sbarco. E così fece ritorno con il pieno degli esuli verso il porto europeo di Anversa. Solo alcune centinaia di ebrei poterono sbarcare in Francia, Belgio e Gran Bretagna. La maggioranza di loro (anche quelli che trovarono momentaneo riparo in terra europea) furono poi massacrati dai nazisti. All’episodio fu dedicato anche un film, dal titolo “la nave dei dannati”.
La Memoria ha visuali corte, e troppi veli sugli occhi. Gli Archivi sono la memoria del nostro passato e l’indicatore del nostro futuro attraverso documenti storici originali e reperti in gran parte inediti, che denunciano come spesso gli interessi delle diplomazie internazionali dei paesi occidentali pesarono più delle ragioni umanitarie e della salvaguardia dei diritti fondamentali degli esseri umani.
Quando la ragione si perde nell’oblio dei distinguo e delle particolarità, i mostri nascosti nel profondo degli abissi del genere umano ritornano e prendono il sopravvento. E i “giusti” di qualsiasi religione, etnia e di qualunque parte del mondo vengono annientati dalla bufera dell’irrazionalismo, come fossero foglie spazzate via dal vento dell’odio.