Il machiavellico vademecum di G.G. Belli per Erdogan

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Era il 21 gennaio 1831 (o 1832, secondo alcuni) quando Giuseppe Gioacchino Belli, sotto il titolo “Li sovrani der monno vecchio”, pubblicò il sonetto che recita:

C’era una vorta un Re cche ddar palazzo
mannò ffora a li popoli st’editto:
«Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo,
sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.

Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:
pòzzo vénneve a ttutti a un tant’er mazzo:
Io, si vve fo impiccà nun ve strapazzo,
ché la vita e la robba Io ve l’affitto.

Chi abbita a sto monno senza er titolo
o dde Papa, o dde Re, o dd’Imperatore,
quello nun pò avé mmai vosce in capitolo».

Co st’editto annò er Boja pe ccuriero,
interroganno tutti in zur tenore;
e arisposeno tutti: «È vvero, è vvero».

Il componimento, tradizionalmente, si iscrive in quella corrente letteraria intrisa di satira e comicità che da Omero e Aristofane prima e Orazio e Marziale poi, passa dagli epitaffi dell’Antica Roma (insuperabile quello dedicato alla prostituta, tanto nota quanto apprezzata, che suona: “Qui giace Menenia Agrippina, finalmente con i piedi vicini”), si evolve tramite Dante, Petrarca e Boccaccio e, superando Pietro Aretino, prosegue poi in Pasquino, lo stesso Belli, Trilussa, Petrolini e approda ai giorni nostri dove ognuno può scegliere l’autore preferito secondo il personale gradimento.

Nel caso di questo componimento, peraltro, il piglio divertente è stato accresciuto e moltiplicato dalla ripresa del suo esordio in una arcinota battuta messa da Mario Monicelli in bocca al Marchese del Grillo impersonato da Alberto Sordi nel 1981 sicché, ormai, basta accennare all’io so io che ogni bocca si muove al riso.

Eppure, se si estrae il poemetto ottocentesco dall’alveo umoristico in cui da sempre è stato incastonato, le sue strofe suonano come una sintesi cruda e raccapricciante di come improvvisamente una democrazia possa volgere in dittatura.

Dal suo palazzo il massimo governante, quasi improvvisamente, va ad ergersi guida del resto del popolo, autoelevandosi al di sopra di esso e relegandolo in un ruolo subordinato (sori vassalli), invigliacchito (buggiaroni) e ridotto al silenzio (e zitto).

A ben vedere, lo svolgersi dell’editto sembra in tutto e per tutto la parabola di Erdogan il quale, iniziata una carriera politica rispettosa delle prerogative parlamentari, ha poi virato verso un maggiore autoritarismo – si pensi alle rivolte di Istanbul del 2013 –  piegando poi, bruscamente, verso il totalitarismo cogliendo l’occasione del fallito golpe del luglio 2016.

La simmetria tra il “soprano der monno vecchio” del Belli e Erdogan trova ulteriore aggancio nel fatto che quest’ultimo ce l’ha davvero “er palazzo”. Si trova ad Ankara ed è di dimensioni tipiche dell’io so io con le sue 1150 stanze e la superficie di 200 mila metri quadri!

L’assolutismo monarchico descritto dal poeta romano diventa addirittura profetico verso Erdogan. Quando er Re proclama di poter fare “dritto lo storto e storto er dritto”, il Premier turco, zelante discepolo, dapprima abbatte un aereo russo e poi accende un idillio con Mosca; prima compra il petrolio dell’Isis in cambio di armi e poi ne bombarda le postazioni dimostrandosi, così, capace di contorsionismi geopolitici che tengono adeguatamente il passo all’emulazione del soprano.

I brividi corrono lungo la schiena quando i versi ottocenteschi recitano: “io pozzo vendeve tutti a un tanto ar mazzo / io si ve fo’ impiccà nun ve strapazzo” e il pensiero va ai 150 mila funzionari di Stato, professori, magistrati, avvocati, scienziati che sono stati rimossi da un giorno all’altro dai loro posti di lavoro, privati dello stipendio e del passaporto onde impedir loro perfino di andare a cercar fortuna altrove e ridotti alla fame unitamente ai familiari, tutti insieme precipitati in un attimo dalla serena tranquillità della vita borghese alla drammaticità dell’elemosina. Una ripresa in senso letterale del verso belliano: ché la vita e la robba io ve l’affitto.

E non è bastata l’umiliazione della perdita dei beni materiali perché ciò che è stato sottratto al popolo turco è stata la dignità che ogni cittadino esprime con il voto. Le regole elettorali sono state scardinate nel recente referendum sul presidenzialismo assoluto inserito nella Costituzione turca che Erdogan aveva già perso e che ha potuto vincere artificiosamente solo permettendo, ad urne già aperte, il conteggio di schede non certificate: un’operazione attuata nella più stretta osservanza dell’editto d’er Re.

Perfino nella sostanziale abolizione della libertà di espressione, con la chiusura delle testate e l’arresto dei giornalisti, si ritrova la pedissequa applicazione, da parte di Erdogan, del poemetto del Belli nella parte in cui si legge che non viene riconosciuto a nessuno di avere vosce in capitolo se non sia o papa o re o imperatore.

A questo punto, appare evidente che non può essere una mera coincidenza il fatto che Erdogan, rendendosi curriero di se stesso, annunci in tutti i suoi discorsi pubblici di essere favorevole al ripristino della pena di morte, all’adozione di quel boja dal quale inevitabilmente discende l’alternativa di aderire alla sua esaltazione dittatoriale, oppure perire, pretendendosi anzi, dal popolo, la gioiosa esclamazione E’ vero, è vero.

A ben vedere, Recep Tayyp Erdogan ha seguito alla lettera il percorso che Giuseppe Gioacchino Belli aveva mirabilmente sunteggiato per descrivere il sorgere della dittatura: non uno degli indicatori prescelti dal sovrano der monno vecchio è stato trascurato dal sultano turco che al poeta romano si è di tutta evidenza ispirato nel suo ultimo periodo di governo come Macron dice di ispirarsi a Machiavelli.

Il Belli, tuttavia, non spiega quale sarà il destino del popolo buggiarone dopo l’avvento della tirannia, ma la Storia, soprattutto a noi italiani, l’ha insegnato. Scrollarsi di dosso un despota non è impresa facile né, tantomeno, indolore. Si passa dai tempi eroici del Risorgimento ai sacrifici della Resistenza mentre il sangue fraterno scorre nell’odio e nel risentimento delle opposte fazioni. L’intrapresa di questo duro percorso sarà purtroppo inevitabile perché il senso della libertà è potente come la vita stessa, tanto più per coloro che l’hanno assaporata come il popolo turco. E prima o poi sentiremo levarsi dalle terre della mezza luna una melodia a noi cara, sia pure con qualche variazione nel testo: “Il Bosforo mormorava calmo e placido …”.


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