Ecco il 14esimo rapporto Censis sulla comunicazione, “I media e il nuovo immaginario collettivo”, redatto in collaborazione con l’Ucsi, Unione Cattolica Stampa Italiana, e promosso da un gruppetto di aziende molto coinvolte nelle tematiche trattate.
Ogni volta che lo si legge, viene voglia di dire “… vabbé, ma questo lo sapevamo già …”.
E invece, se non altro, il rapporto ha il merito – significativo di questi tempi – di fornirci i numeri e le spiegazioni dei fenomeni che sono sotto gli occhi di tutti.
Anche di chi fa finta di non vedere.
E’ il caso, per esempio, di affermazioni come “…il nostro è un Paese in piena frattura generazionale …”. Sarà.
Soltanto che, se un tempo agli anziani venivano contrapposti i baby boomer, oggi è la volta dei millennial.
O, al contrario, come si legge a pagina 36 del rapporto (Forever young: il processo di «giovanilizzazione» degli adulti), i comportamenti mediatici dei giovani e degli adulti sono sempre più omogenei. Nel 2017 viene praticamente colmato il gap nell’accesso a Internet, con un’utenza dell’87,8 per cento tra i 30-44enni contro il 90,5 dei 14-29enni. Lo stesso avviene per i social network eccetera, eccetera…
E come potrebbe essere diversamente, quando non passa giorno che un qualsiasi quarantaquattrenne protagonista di un qualunque fatto di cronaca viene definito “…il ragazzo…” alla tv e sui giornali?
Un altro esempio può essere “…la nostra è una nazione in transizione, frammentata, senza un’agenda sociale condivisa da una maggioranza, polverizzata …”. Sarà.
Se diamo un’occhiata al sommario del comunicato stampa dell’istituto di ricerca: “Su Internet il 75,2 per cento degli italiani, smartphone usati dall’89,3 dei giovani, utenza della mobile tv raddoppiata in un anno (dall’11,2 al 22,1 per cento). WhatsApp, Facebook e YouTube le piattaforme preferite, ma decolla anche Instagram. Spesi 22,8 miliardi di euro nell’ultimo anno per cellulari, servizi di telefonia e traffico dati”.
Non è forse questa la fotografia di una significativa compattezza sociale?
In ogni caso, il Censis battezza l’epoca che stiamo vivendo «era biomediatica».
Quella di proporre una o più parole che sintetizzano un concetto individuato prima empiricamente dal sentire comune, poi scientificamente formalizzato dall’indagine, è senza dubbio da sempre una delle prerogative dell’istituto che incuriosiscono maggiormente gli operatori dell’informazione.
In dieci anni- si precisa – siamo passati da una dimensione verticale della comunicazione a una orizzontale, dove ognuno, dotato di telefonino e connessione Internet, pensa di poter produrre informazione. La rivoluzione digitale, dunque, ha compiuto il suo corso e ha dispiegato i suoi effetti. È una nuova società, individualista, che ha trovato nella Rete il suo punto di riferimento e fa sì che tra i 14 e i 29 anni sia più importante un selfie o la cura del corpo di un buon titolo di studio.
Nella crisi economica cominciata convenzionalmente nel 2008 si è individuato lo spartiacque: “Da quel momento – ha spiegato il direttore generale del Censis, Massimiliano Valerii – il Paese ha perso l’innocenza, ha visto rompersi quel patto sociale che si basava sull’assunto per cui i giovani sarebbero stati meglio dei loro genitori. È successo l’opposto … Mi preoccupa lo scarso valore che i ragazzi attribuiscono al titolo di studio…”.
Un tempo – parecchi lo ricorderanno – il titolo di studio veniva chiamato spregiativamente “pezzo di carta”.
Ma allora non è cambiato nulla?
Falso. Ovviamente, alcune cose sono cambiate, altre no, alcune cose sono migliorate, altre peggiorate. Per quanto riguarda la circolazione della conoscenza, e quindi la concreta possibilità di raggiungere la consapevolezza – status indispensabile per parlare democrazia e di libertà – diciamolo subito: le fake news ci sono sempre state.
Il problema, semmai, è quello di procurarsi armi di difesa. Così la palla torna al sistema dell’informazione.
Dal rapporto si evince che per tutte le classi di età degli italiani, tra le figure che esercitano l’influenza maggiore nella costruzione dell’immaginario collettivo, la famiglia resta al primo posto, seguita dalle persone frequentate abitualmente, mentre crolla il ruolo di intellettuali, giornalisti, politici o personaggi famosi, scalzati dal pulpito dai blogger, gli influencer, gli youtuber.
E per quanto riguarda invece le fonti d’informazione vere e proprie, i tg sono ancora in testa, davanti a Facebook, che poi è un po’ come dire “…un mio amico mi ha detto…”.
E qui fanno capolino le famose fake news, le palle.
A più della metà degli utenti di Internet, si legge nel rapporto, è capitato di dare credito a fake news circolate in rete.
Ma non disperiamo. Perché lo studio evidenzia che alla domanda su chi sia la figura che esercita più di tutte un’influenza sui fattori ritenuti centrali nell’immaginario collettivo, dopo appunto genitori e amici compare il giornalista competente.
Una bella soddisfazione per chi fa questo mestiere, che non dovrà però mai dimenticare che competenza significa anche autorevolezza, quindi regole, controlli, rigore, schiena dritta.
A questo proposito, merita citare la considerazione conclusiva del fondatore e presidente del Censis, Giuseppe De Rita: “Oggi l’informazione è autopropulsiva su se stessa, diventa sempre più grande, aumenta il suo potere, ma finisce per essere anche molto condizionata dalla società. È la società molto spesso che incide sui media e impone in qualche modo un suo immaginario collettivo che poi i media continuano. L’informazione pecca di superbia; è la società che spinge, va avanti, crede solo in se stessa. Sarà l’informazione a doversi difendere”.