É un documento terribile quello scritto da Loris Bertocco, il dirigente dei Verdi in Veneto, che annuncia la sua volontà di fare ricorso al suicidio assistito in Svizzera; e lo attua. Nel lungo, articolato memoriale inviato a Concita De Gregorio, che ne pubblica un corposo stralcio su “La Repubblica”, Bertocco dice con estrema chiarezza che se avesse ottenuto un’assistenza adeguata, avrebbe senz’altro rimandato la decisione estrema di farla finita: “…La mia situazione familiare non mi permette di avere sostegni…Ho lottato con la regione (Veneto, ndr) per quasi due anni senza ottenere il risultato che speravo…Questa situazione non poteva durare a lungo”. Così Bertocco, come tanti altri prima di lui, ha varcato il confine. Una volta si parlava di “viaggio della speranza”: intendendo, con questa espressione il viaggio intrapreso da chi ha necessità di terapie mediche non disponibili nel proprio paese, o da chi è costretto a emigrare e spera, così facendo, di procurarsi condizioni di vita migliori di quelle in cui vivono.
Per Bertocco il “viaggio della speranza” è quello di andare a morire con dignità, visto che in Italia nessuno lo ha voluto aiutare a vivere. Per questo è morto, per questo ha fatto questa irrevocabile scelta. Non tanto vinto dal dolore insopportabile, dalla consapevolezza che era ormai inutile proseguire un’agonia senza speranza; Bertocco avrebbe voluto continuare a vivere. Siamo noi che non gli abbiamo dato questa possibilità, non gli abbiamo fornito i mezzi concreti e materiali per andare avanti. Siamo noi che abbiamo annichilito la sua forza e la sua volontà. Noi, siamo i responsabili di questa morte. La morte di Bertocco, e di quanti altri?
Quanti come lui sono privi di mezzi, di aiuto, del sostegno necessario? E’ una questione cruciale. Qui non è in discussione la volontà del malato di decidere il come, il quando; e di vedersi riconosciuto il diritto all’autodeterminazione della sua vita e del suo destino. Qui c’è il dovere, l’obbligo della società di assicurare a quanti vogliono vivere di poterlo fare, di non trovarsi nella condizione – ripeto: terribile – in cui è venuto a trovare Bertocco.
Non nascondo che provo vergogna per quanto è accaduto; e vorrei che questo memoriale, quell’articolo pubblicato da “La Repubblica” trovasse la massima diffusione possibile, e venissero recapitati in tutte le stanze di tutti i palazzi del Potere. Da anni attendiamo una legge civile che “governi” il fenomeno del cosiddetto “fine vita”. Ma qui siamo oltre: qui c’è un palese caso di mancata, necessaria assistenza. É nostro dovere, dovere costituzionale, dovere etico, dovere morale, garantire tutto quello che serve ed è necessario perché il malato possa vivere con serenità il tempo che la malattia gli lascia. Quello che a Bertocco è stato negato.
Casi come questo devono entrare nelle agende politiche dei partiti, delle persone che governano il paese. Si tratta di questioni delicate, spesso penose, che non possiamo e non dobbiamo più eludere.
Ho avuto modo di seguire, qualche giorno fa, un altro caso terribile, con analogo epilogo. La storia di un giudice, il Procuratore Generale di Catanzaro Pietro D’Amico. Nel 2008 D’Amico si trova coinvolto in un’inchiesta da cui esce pienamente, nettamente riabilitato; e comunque da questa vicenda esce profondamente colpito dal punto di vista psicologico, emotivo. Un disagio profondo, al punto che due anni dopo a un amico scrive: “In una situazione come la mia, io voglio morire perché aggredito da una malattia terribile in fase avanzata e terminale”. Già: perché al magistrato, nel frattempo, sembra sia diagnosticato un tumore. Quindi meglio farla finita con “la dolce morte” da praticare là dove è consentito: in Svizzera.
D’Amico produce la documentazione necessaria: certificati che affermano l’esistenza di patologie che rendono possibile, in base alla legge elvetica il cosiddetto “suicidio assistito”. Nell’aprile del 2013, a Basilea, presso il centro “Life Circle-Eternal Spirit”, la vicenda si conclude.
La vera storia, però comincia ora. La famiglia non è per nulla convinta: chiede, e ottiene, che sia effettuata l’autopsia. Si scopre così che D’Amico non era affatto malato di tumore, come forse credeva. Depresso, sì; ma autopsia e approfonditi esami di laboratorio escludono l’esistenza di quella grave e patologia dichiarata da alcuni medici italiani, e asseverata da medici svizzeri.
Clamoroso errore, diagnosi errate? I documenti sono stati falsificati ad arte, per poter appunto accedere alla clinica svizzera e suicidarsi? E’ quello che deve accertare la magistratura (e speriamo lo faccia in breve tempo).
Perché accosto il caso di D’Amico a quello di Bertocco? Perché la legge che non c’è e che vorrei ci fosse (e per la quale mi batto e continuerò a battermi), deve prevedere un preciso e rigoroso “protocollo” che accerti l’effettivo e autentico stato di salute del malato; che accerti che la volontà di ricorrere al suicidio assistito sia espressa in scienza e coscienza da parte del malato, e senza possibilità di equivoco o errore; soprattutto che al malato siano assicurate tutte le alternative al suicidio assistito, non deve essere costretto a farvi ricorso come è accaduto a Bertocco, perché materialmente non era più in condizione di tirare avanti; o come è accaduto a D’Amico perché convinto di essere malato, mentre non lo era.
Dobbiamo essere tutti consapevoli che si tratta di vicende delicatissime che giustamente lacerano le coscienze, laiche o credenti che siano: questioni ineludibili e che abbiamo il dovere di “governare”: quando si ha diritto di interrompere la propria vita? Chi può stabilire quando il cosiddetto “mal di vivere” è incurabile, e quando? Fino a che punto il volere del soggetto va assecondato, e non si deve invece cercare di offrirgli alternative? Non ci dobbiamo stancare di porle, queste domande; e abbiamo il dovere di esigere dalla Politica risposte urgenti e adeguate.
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