Se Ernesto Guevara de la Serna, detto il “Che” per via di un suo celebre intercalare, non fosse morto a soli trentanove anni, dopo aver convissuto per almeno due decenni con la prospettiva della fine, probabilmente non sarebbe diventato l’icona planetaria che oggi molti venerano.
Sarebbe stato amato, rispettato, stimato, considerato un simbolo e, forse, un esempio da seguire ma sarebbe andato anche incontro all’inevitabile deperimento cui sono soggetti i miti: invecchiare, perdere la bellezza della gioventù, la carica innovativa e rivoluzionaria, la freschezza e il trasporto emotivo che sono in grado, inizialmente, di suscitare.
Castro ha pagato anche la sua realpolitik e le conseguenze dei lunghi anni di embargo (il “bloqueo”) cui è stata sottoposta Cuba dagli Stati Uniti, con annessa consunzione di un fisico e di un animo costretti a vivere costantemente in battaglia e a guardarsi da ogni possibile minaccia, e non sono state certo poche; Guevara, essendo l’ultimo grande rivoluzionario di professione, quasi sicuramente avrebbe pagato l’amaro prezzo della sconfitta di un’ideologia e di una visione del mondo che pure, se declinata in termini più moderni, avrebbe ancora tanto da dire e da dare alle nuove generazioni.
E lo sapeva e agiva come se avesse messo in conto la fine, come se sapesse che quella in Bolivia sarebbe stata la sua ultima avventura, come se ogni giorno andasse incontro al destino con sprezzo del pericolo, ben cosciente del potere e dei mezzi di cui dispone, da sempre, l’imperialismo americano, e tuttavia, al tempo stesso, convinto di non potersi e di non doversi ugualmente fermare, pena il tradimento dei propri ideali e di quelli del suo popolo globale.
Perché Guevara è stato uno dei primi prodotti della globalizzazione, tanto che nei decenni successivi, sia pur involontariamente e con modalità che lo avrebbero senz’altro disgustato, lo stesso potere economico e finanziario che aveva combattuto per tutta la vita lo ha trasformato in un gadget, in un souvenir sempre fruttuoso, in un prodotto che rende bene ad ogni latitudine e attrae persino coloro che professano un pensiero politico radicalmente alternativo rispetto a quello di cui era promotore il “Che”.
Un eroe romantico, dunque, un Byron del Ventesimo secolo, un personaggio che è nato e ha operato al momento giusto, incrociando la stagione della generazione ribelle, di una volontà planetaria di emancipazione dagli antichi costumi, della ribellione contro la barbarie perpetuata dagli yankee in Vietnam, dei prodromi del Maggio francese e della convinzione collettiva che fosse ancora possibile essere realisti sognando l’impossibile.
Volendo alimentare il concetto del “Che” idealista romantico, tralasciandone per scelta l’aspetto guerresco e il piglio decisionista che pure lo caratterizzava, possiamo dire che l’elemento più tragico della sua vicenda umana è che dopo di lui si è spenta l’utopia, come se le generazioni successive si fossero progressivamente rassegnate e non fossero più state in grado di darsi un obiettivo lontano, apparentemente irraggiungibile, folle, ai limiti dell’assurdo e, proprio per questo, meritevole di una lotta convinta e disperata.
Con la scomparsa del “Che” e con l’esaurirsi dell’ammirazione generale per il colonnello Aureliano Buendia di García Márquez, eterno sconfitto di una saga di vinti, è venuta meno anche l’idea che si possa accettare e, in alcuni casi, persino auspicare la sconfitta pur di conservare la propria dignità.
Erenesto Guevara è stato, in poche parole, un precursore del Sessantotto, un contemporaneo di don Milani e dei Figli dei fiori, un eroe senza confini e uno sconfitto a sua volta, con la differenza, rispetto ad altri, che lui quella fine drammatica probabilmente l’ha cercata e voluta proprio per preservare la sua purezza, cosciente del fatto che anche la rivoluzione che nasce animata dalle migliori intenzioni, col tempo, è destinata a corrompersi.
Non a caso, il “Che” sosteneva che “bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza”, a dimostrazione di quanto fosse, in realtà, profondo e poetico il suo animo di guerrigliero universale.
Ha detto di lui Manuel Vázquez Montalbán: “Il Che è come un incubo per il pensiero unico, per il mercato unico, per la verità unica, per il gendarme unico. Il Che è come un sistema di segnali di non sottomissione, una provocazione per i semiologi o per la santa inquisizione dell’integralismo neoliberale. E causa questo disagio non come profeta di rivoluzioni inutili, ma come scoraggiante (per il potere) proclama del diritto a rifiutare che, fra il vecchio e il nuovo, si possa scegliere soltanto l’inevitabile e non il necessario”.
Ed Eduardo Galeano aggiunse: “Che Guevara disse quello che pensava e fece quello che disse. Una cosa incredibile in un mondo dove le parole e i fatti non s’incontrano mai e se s’incontrano non si salutano perché non si conoscono”.
Hasta la victoria siempre, Comandante Guevara!”.