Cinque anni senza Eric Hobsbawm, storico di impianto marxista fra i più importanti del Ventesimo secolo, narratore e, al contempo, protagonista delle vicende che hanno squassato il Novecento e mutato per sempre gli equilibri globali.
Ebreo nato in una famiglia di origini austriache, perse i genitori ancora molto giovane e si trasferì da Berlino a Londra presso una famiglia adottiva insieme alla sorella, scampando per sua fortuna alla persecuzione razziale hitleriana ma non certo alla mattanza del secondo conflitto mondiale.
Studioso e storico tra i più colti e poliedrici, aveva la rara caratteristica di non amare la storiografia classica e di preferire ad essa le storie che provengono dal basso, ponendo al centro delle sue ricerche e delle sue analisi le vicende della gente comune nonché fenomeni di costume come lo sport, l’arte, la moda, le canzoni e tutto ciò che può contribuire a ricostruire in maniera nitida il contesto sociale e culturale di un determinato periodo.
Una storiografia, quella di Hobsbawm, autorevole proprio perché non cattedratica, priva di compartimenti stagni, in grado di scandagliare a fondo i singoli fenomeni e di leggerli nella loro globalità, senza presunzione, senza limiti e barriere auto-imposte, senza i pregiudizi e le chiusure che spesso caratterizzano il lavoro degli storici.
Hobsbawm, al contrario, riteneva ugualmente importanti il jazz e le decisioni di questo o quel capo di Stato, sostenendo, a ragione, che l’opinione pubblica si formi in una molteplicità di modi e che spesso il comune sentire di una stagione sia determinato più da fattori apparentemente marginali che dall’azione politica e civile dei governanti e delle élite.
Possedeva, insomma, la curiosità e la passione popolare tipica dei grandi, da noi così rara negli accademici e anche nei giornalisti, il che gli ha consentito di dipingere “il Secolo breve” con una maestria pressoché ineguagliabile, abbracciandone ogni singolo aspetto e dando vita ad un autentico corpo a corpo con una fase storica lunga settantasette anni e destinata a produrre effetti ancora per molto tempo.
Tra il ’14 e il ’91, infatti, si sono compiuti destini, consumate tragedie, realizzate svolte epocali e verificate invenzioni e innovazioni che, specie nella seconda metà del secolo, hanno contribuito a migliorare notevolmente la vita di milioni, se non addirittura miliardi, di persone.
La catastrofe, l’oro e la frana: queste sono le tre fasi in cui, secondo Hobsbawm, si divide il Novecento, con una classificazione che lascia ben intendere ai lettori come il trentennio glorioso che è andato dal dopoguerra ai primi anni Settanta, quando nacque la democrazia del ceto medio e si rafforzarono diritti sociali imprescindibili fino ad allora mai tutelati, sia stata l’unica stagione della storia contemporanea in cui si è provato concretamente ad includere coloro che in precedenza erano sempre stati tenuti ai margini della società.
Non a caso, ne “Il secolo breve”, egli scrive: “La ragione di questa impotenza non sta solo nella profondità e complessità delle crisi mondiali, ma anche nel fallimento apparente di tutti i programmi, vecchi e nuovi, per gestire o migliorare la condizione del genere umano”. E aggiunge: “Il Secolo breve è stato un’epoca di guerre religiose, anche se le religioni più militanti e assetate di sangue sono state le ideologie laiche affermatesi nell’Ottocento, cioè il socialismo e il nazionalismo, i cui idoli erano astrazioni oppure uomini politici venerati come divinità”.
Citando, nella prefazione dell’opera, il poeta Thomas Stern Eliot, poi, il disincantato ma mai domo Hobsbawm spiegava, con una punta di sarcasmo, che <<“il mondo finisce in questo modo: non con il rumore di un’esplosione, ma con un fastidioso piagnisteo”, il Secolo breve è finito in tutti e due i modi>>.
Diciamo, dunque, che Hosbawm, nel suo saggio più significativo, riuscì a ricomporre la frattura epocale tra il materialismo storico proprio del marxismo, corrente filosofica nella quale peraltro si riconosceva pienamente, e l’idealismo che con esso, fino a quel momento, si era trovato quasi sempre in contrasto.
Fu anche profetico per quanto concerne il domani, sostenendo che il Novecento “è finito in un disordine mondiale di natura poco chiara e senza che ci sia un meccanismo ovvio per porvi fine o per tenerlo sotto controllo”.
Per Hobsbawm, pertanto, la storia era non solo una materia viva, da plasmare, aggiornare, conoscere e divulgare, ma anche una missione politica e civile indispensabile, da compiere sia a livello individuale che collettivo.
A tal proposito, in “L’Età degli imperi”, ha asserito: “La memoria è vita. Essa è in perpetua evoluzione. Rimane a volte latente per lunghi periodi e poi ad un tratto rivive. La storia è la ricostruzione sempre incompleta e problematica di quello che non è più. La memoria appartiene sempre al nostro tempo e forma un eterno presente. La storia invece è rappresentazione del passato”.
Aveva novantacinque anni quando se ne andò, il 1° ottobre 2012, lasciandoci orfani di un interprete delle vicende del mondo di cui oggi avremmo un gran bisogno: per la sua lucidità e competenza, certo, ma, più che mai, perché partiva dagli uomini e poneva l’uomo al centro del suo continuo interrogarsi.