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Daphne Caruana Galizia e il prezzo alto pagato dai nostri colleghi sull’altare della libertà di stampa

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L’assassinio della giornalista Daphne Caruana Galizia, a Malta, non può non coinvolgere, anche emotivamente, il nostro paese che pure, in termini di vite umane, ha pagato un prezzo altissimo sull’altare della libertà di stampa. E non può, soprattutto, non aprire l’ennesimo dibattito sul ruolo, essenziale, della libera stampa e di una stampa autonoma da ogni potere in un paese democratico e dunque in ogni democrazia liberale, considerato che un’opinione pubblica può dirsi tale solo se informata e dunque formata. Nel nostro paese troppi sono i giornalisti costretti a vivere sotto scorta, il che non rappresenta, come i più possono pensare, una sorta di status, bensì una pesante riduzione oltre che della libertà personale anche della possibilità di svolgere al meglio la propria funzione. E troppi sono i giornalisti a vivere, quotidianamente, le azioni giudiziarie, in sede civile e penale, come autentiche clave scagliate su di loro dal potente di turno.

Chi, come il sottoscritto, assiste quotidianamente, nei tribunali, giornalisti indagati ed imputati per avere svolto al meglio il proprio dovere non può che denunciare le storture di un sistema giudiziario che rende il giornalista un facile bersaglio e spesso, per non dire sempre, a costo pari a zero per il querelante. E non si può tacere, altresì, dinanzi alle numerose invettive che la classe politica, spesso indistintamente, riserva ai giornalisti rei di compiere il proprio dovere, magari facendo domande scomode, inchieste o limitandosi a critiche dure e sferzanti nei confronti di chi ha un ruolo pubblico: la più recente, quella di Beppe Grillo, che non è nuovo a invettive di questo tipo. Ho sempre sostenuto che la difesa della libera stampa non debba essere alla stregua di una difesa sindacale, quasi di casta, ma debba essere pensata e realizzata come la difesa di un principio generale e quindi come la difesa della pubblica opinione. Da qui, ad esempio, mi pare geniale la scritta che da tempo compare sotto il nome del Washington Post: la democrazia muore nell’oscurità, una sintesi perfetta del ruolo dell’informazione in una democrazia liberale, che non poteva che provenire dalla cultura anglosassone che è imperniata sul valore (e sul ruolo) della libera stampa. E però, proprio agli Stati Uniti il giornalismo nostrano dovrebbe guardare, talvolta, in ordine alla meticolosità degli accertamenti compiuti per la redazione di una inchiesta e soprattutto per la terzietà che sempre, nei casi di cronaca più importanti, denota nei confronti tanto dell’accusato quanto dell’ufficio della pubblica accusa. Scrivo questo perché talvolta si assiste, soprattutto nei casi di cronaca giudiziaria, ad una sorta di appiattimento del giornalismo sulle ipotesi accusatorie, dimenticando che le ipotesi accusatorie oltre ad essere, appunto, ipotesi, lo sono di una parte, la pubblica accusa.

Non possiamo dimenticare che questo corto circuito (che evito di definire mediaticogiudiziario, solo perché nel tempo tale definizione è stata utilizzata per screditare indagini ed inchieste giornalistiche) ha prodotto, anche di recente e senza scomodare la storica e drammatica vicenda di Enzo Tortora, storture, orrori ed errori clamorosi: dal caso di Silvio Scaglia, fino alle maestre di Rignano Flaminio. E’ bene che si dica con chiarezza: un giornalismo davvero libero lo è soprattutto se è capace di affrancarsi da una sorta di sudditanza psicologica mostrata, talvolta, nei confronti delle procure della repubblica, ponendosi anche nei confronti di queste come controllore del loro operato, riuscendo, in autonomia, oltre che a raccontare i fatti, a sottoporre a stretto vaglio critico ogni ipotesi. Un giornalismo capace di vincere questa sfida, definitivamente, non sarà un giornalismo meno efficace ma anzi sarà un giornalismo più forte, autorevole e realmente al servizio dell’opinione pubblica. E di questo modo di fare giornalismo (credo l’unico possibile) la storia italiana ha avuto, ed ha, svariati esempi, molti finiti nel sangue, altri nelle aule di tribunale, altri ancora, nel silenzio di tutti, in una sorta di dimenticatoio, perché sono quei giornalisti che, giorno dopo giorno, esercitano la loro funzione nelle periferie del nostro paese, con contratti spesso a tempo determinato, talvolta come free-lance, il più delle volte da soli, senza alcuna protezione e copertura. Difendere loro vuol dire difendere la democrazia.


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