Il Sole24Ore di alcuni giorni fa titolava: “Rai fuori dalla PA, Governo al lavoro”, rammentando che l’Istat ha inserito la concessionaria del servizio pubblico nel novero delle pubbliche amministrazioni, come tali assoggettate ai vincoli della finanza pubblica. Il Consiglio di amministrazione della Rai, che ha affrontato la questione anche di recente, ha sempre ritenuto tali vincoli incompatibili con gli equilibri economici del servizio pubblico radiotelevisivo anche in rapporto al sistema di finanziamento previsto dalla legge.
Il Governo, secondo le notizie di stampa, starebbe pensando di intervenire con la legge di bilancio per sottrarre la Rai alle regole delle pubblica amministrazione in senso stretto, intervento che si renderebbe oltremodo necessario anche in virtù del fatto che l’Istat ha ribadito l’inserimento della Rai tra gli enti governativi ad ottobre 2017, nonostante il primo inserimento, risalente ad ottobre 2016, fosse stato differito dallo stesso legislatore al 1 gennaio 2018 (D-L 30 dicembre 2016, n. 244 convertito con modificazioni dalla L. 27 febbraio 2017, n. 19).
La Rai non era mai stata inserita nel novero delle pubbliche amministrazioni ma nel 2016 l’Istat, richiamandosi a un aggiornamento delle linee guide Eurostat, ha ritenuto di far rientrare la concessionaria pubblica nei nuovi criteri d’interpretazione che attraggono nella sfera della PA le società controllate dal governo e finanziate dalle entrate pubbliche per oltre il 50%, creando notevoli incongruenze.
Innanzi tutto si è verificata una commistione di fonti normative del tutto incoerenti. L’Istat è un ente pubblico sotto il pieno controllo del Governo, che ne indica i componenti ed emana atti amministrativi. Pertanto includere o escludere un ente con riferimento all’elenco Istat è un atto amministrativo. L’inserimento non è indolore, poiché il legislatore italiano in numerosi provvedimenti di fonte primaria considera destinatari di vincoli di finanza pubblica gli enti inclusi nell’elenco Istat. Va da se che l’Istat includendo o escludendo determina l’assoggettamento o meno dell’ente considerato a questa normativa. In altre parole, con un atto amministrativo discrezionale, un ente si trova ad essere assoggettato ad una serie di norme di legge primaria incidenti sul proprio bilancio.
Fino a quando la Rai è rimasta esclusa dall’elenco Istat si è potuta sottrarre a numerose norme di vincolo di bilancio; ora che vi è inserita vi è pienamente assoggettata pur non facendo parte dell’apparato amministrativo dello Stato.
Com’è noto, non è il Governo che decide se la Rai deve esistere o meno, se deve essere affidataria della concessione di servizio pubblico o meno, non è il Governo che indica la maggioranza dei membri del Consiglio di amministrazione, non è il Governo che ne determina gli indirizzi editoriali, ma la Commissione parlamentare di vigilanza.
Anche con riguardo allo scopo ultimo dell’inserimento della RAI nell’elenco Istat – monitorare l’incidenza del bilancio Rai sulla crescita del deficit e del debito pubblico – a poco rileverebbe attrarre nel novero della PA la concessionaria del servizio pubblico, il cui bilancio da sempre non ha fatto parte del bilancio consolidato dello Stato.
Il finanziamento della Rai è infatti strutturato in base a un sistema misto, composto da un’imposta di scopo e da entrate commerciali. L’imposta di scopo fa si che le entrate provenienti dalla leva tributaria non siano incluse nella fiscalità generale, discrezionalmente gestite dal Governo, ma siano indirizzate quasi integralmente alla Rai. Ciò implica che un eventuale deficit e debito pubblico Rai, cioè maggiori spese rispetto alle entrate, non andrebbero a pesare in ogni caso sul bilancio dello Stato, che si limita a versare i ricavi da imposta dedicata (e neppure integralmente).
Anzi, è da dire che storicamente si è verificato il processo inverso. Lo Stato non ha mai dovuto ripianare i debiti della Rai; al contrario, la Rai, rinunciando a una quota di canone, ha finanziato operazioni dello Stato che poco avevano a che fare con il servizio pubblico.
Ad esempio, nel passaggio dall’analogico al digitale l’assegnazione delle nuove frequenze necessarie per implementare la rete – da considerarsi inerenti alla concessione e quindi di spettanza dell’autorità concedente (il Mise) – sono state finanziate interamente col canone, sottraendo le relativa somme alle attività di servizio pubblico radiotelevisivo; per non parlare del prelievo forzoso di 150.000 milioni di euro dal canone Rai. Il cd extragettito derivante dal nuovo sistema di pagamento del canone, inserito nella bolletta elettrica reca nel nome (extra) il sintomo che una buona parte delle somme riscosse ha preso una destinazione molto diversa da quella del servizio pubblico, ingenerando il fiero dubbio che vi sia stata una doppia imposizione sui cittadini, chiamati a finanziare la fiscalità generale attraverso l’IRPEF, una prima volta, e attraverso il cd extragettito del canone Rai, una seconda volta..
Sarebbe dunque davvero auspicabile che il Governo proponesse un intervento legislativo, peraltro già anticipato con il Milleproroghe dello scorso anno, che riporti ordine nella gerarchia delle fonti, non consentendo a provvedimenti amministrativi di alterare un risalente equilibrio legislativo fondamentale per l’espletamento del servizio pubblico radiotelevisivo.