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9 ottobre 1967. La morte di Che Guevara, l’inizio del ’68

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Il mito di Che Guevara non appare minimamente sgualcito a 50 anni dalla morte. Non ci stupisce. L’Espresso, che gli dedica giustamente un grande spazio, ritiene che la sua forza, mantenuta nei decenni attraverso una iconografia di cui è facile innamorarsi, sia soprattutto intatta perché il Che rappresenta in ogni caso il rivoluzionario che nessuno dopo è mai stato.

L’impossibilità di inquadrare Ernesto Guevara de la Serva, detto Che, in qualcuno degli schemi noti per raccontare la storia delle rivoluzioni ha reso il personaggio più libero rispetto ad altri, al punto che neppure l’industria commerciale è riuscita, nonostante tutto, a usare l’immagine del Che. Nemmeno la più celebre, quella di Humberto Corda, con il viso sorridente e lo sguardo vittorioso, il viso ristampato milioni e milioni di volte su poster e magliette in tutto il mondo, neppure quella foto è oggetto di speculazione: Corda ha lasciato liberi i diritti, è riprodotta ovunque ma non è diventata un oggetto con uno specifico marchio, è rimasta stranamente libera…forse è questa libertà che da 50 anni traspare da qualsiasi immagine di Guevara che lo ha reso unico e immortale per almeno due generazioni. Ma per una di più: quella che proprio in quei giorni del 1967 si affacciava alla contestazione di una università gestita secondo le leggi fasciste e una scuola che si basava ancora sulle classi sociali, sulle differenze fra ricchi e poveri, più che sui meriti e le intuizioni dei singoli alunni.

Lo scossone arrivò in quelle classi superiori con la forza di un tornado: nei giorni in cui i quotidiani pubblicarono la foto del Che sul letto di morte in Bolivia – con quella ripresa dal basso in alto che lo fece subito paragonare al Cristo morto del Mantegna – si formarono immediatamente i primi collettivi, si avviò quel lungo indefinito percorso che la storia ha poi catalogato come “il 68” e che è, in effetti, una lunga e tormentata presa di coscienza di una generazione che anni dopo avrebbe dimostrato, più nel male che nel bene, di essere dominante.
Due mesi dopo la morte del Che gli atenei di Torino e di Milano saranno occupati e le uova di Capanna e dei suoi compagni sulle stole e sui gioielli delle dame milanesi che andavano alla prima della Scala daranno il via a quel tentativo di rivoluzione che non diventò mai tale ma che ha comunque segnato profondamente il secondo novecento, in Italia certamente, ma anche nel resto d’Europa e negli Stati Uniti. Senza dimenticare Praga…

In un tempo amaro come questo, in cui si sta perdendo il senso delle collettività, della comunione di intenti, della capacità politica di interpretare i bisogni della società, una figura come Guevara appare davvero come un sogno, e presto si penserà che non sia mai esistita, che sia solo una bella fotografia. E’ importante invece andare in giro a raccontare chi era, a recuperare quel pezzo di storia mondiale contemporanea che i giovani ignorano totalmente perché la scuola non la inserisce nei programmi e le famiglie non la spiegano. Mi si dirà che c’è Wikipedia, certo. Se uno è curioso trova, trova sempre. Ma la sollecitazione del rapporto diretto è altra cosa, se facessimo tutti uno sforzo in più nel nostro spiegare agli altri, informare, raccontare, confrontarsi, se spiegassimo senza tanti termini inglesi che il progresso non è costruire belle fabbriche ma belle persone (citazione del Che) avremmo raggiunto qualche risultato, forse qualche fake news di meno sui social, forse qualche briciolo di solidarietà in più verso il prossimo. Gli scritti del Che oggi suonano inquietanti e moderni, attualissimi ma profondamente disattesi:“Se hai una catena ai piedi puoi spezzarla e liberarti, ma se ti tengono nell’ignoranza non ti liberi mai. Ti fanno credere quello che vogliono, ti abituano a non pensare più e alla fine accetti anche le ingiustizie. La dittatura agisce così. Per questo insegno a leggere e a scrivere. Il mio motto: più libri, più liberi.»


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