Era sopraffatto da un’emozione che neppure l’abbraccio della moglie è riuscito a sciogliere: Kadri Gursel è uscito dal carcere di Silivri, qui a Istanbul, dopo 330 giorni di prigionia. Ma quando è stato sommerso dagli applausi dei giornalisti, degli attivisti per i diritti civili che si erano radunati per accoglierlo, si è schermito: non si può gioire della mia scarcerazione – ha detto – quando altri colleghi di Cumhuriyet restano dietro le sbarre sulla base di accuse infondate.
Sono ancora quattro i reporter e i dirigenti della testata ancora in prigione al termine della terza udienza di un processo diventato la cartina di tornasole non solo delle ombre che si addensano su questo paese, ma anche delle profonde divisioni che l’attraversano. Un processo che “gli uomini del presidente” descrivono come la resa dei conti contro un gruppo editoriale che avrebbe condotto una vera e proprio “guerra asimmetrica” contro Erdogan alleandosi con i terroristi e golpisti d’ogni risma. E che è invece – ribattono le forze d’opposizione, e le voci – ridotte spesso a sussurri – della società civile, è un attacco alla liberta d’espressione. E’ un atto di guerra, questo sì, contro un giornale, Cumhuriyet, che ancora sconta il suo “peccato originale” commesso nel 2015: aver affondato il dito nella piaga dei traffici d’armi tra la Turchia e gli islamisti siriani. Per questa “colpa”, il direttore dell’epoca, Can Dundar, esiliato in Germania, è stato giudicato in contumacia. Nel paese dove – dal fallito golpe ad oggi – cinquantamila persone sono in attesa di processo, spesso senza che a loro carico siano state formalizzati i capi d’accusa, centocinquantamila sono state arrestate o sbattute fuori dal posto di lavoro, i giornalisti detenuti sono ancora 160.