Insultate e minacciate per aver “osato” occuparsi di immigrazione, integrazione e razzismo. Tre colleghe, Antonella Napoli, Tea Sisto e Silvia Dipinto, sono diventate oggetto sui social di insulti e minacce razziste per aver stigmatizzato un manifesto dal contenuto chiaramente razzista di Forza Nuova o per aver intervistato l’imam di Bari, all’interno della moschea, indossando il velo esattamente come tutte le altre donne, comprese le rappresentanti delle istituzioni cittadine che hanno partecipato alla cerimonia religiosa. Una escalation preoccupante, che non può lasciare indifferenti né portare a sottovalutare il fenomeno. La solidarietà alle colleghe non basta. Occorre andare oltre e uscire una volta per tutte da un malinteso.
Quello secondo il quale il web e i social sono i luoghi dell’impunità. Si può essere o no d’accordo sul contento di un articolo, il lavoro giornalistico è sicuramente criticabile, ma gli insulti, le minacce, il linguaggio sessista non hanno niente a che vedere con la libertà di manifestare il proprio pensiero, garantita dall’articolo 21 della Costituzione. Tutti gli episodi di intolleranza vanno denunciati nelle sedi competenti. L’auspicio è che siano sanzionati in tempi direttamente proporzionali alla velocità dei mezzi con cui vengono diffusi. Spesso, infatti, chi insulta e minaccia, lo fa confidando nei tempi biblici della giustizia che, nella maggior parte dei casi, consentono di farla franca. Occorre un cambio di passo. Ferme restando tutte le garanzie dello Stato di diritto, servono interventi normativi che assicurino certezza dei tempi e delle sanzioni. Temi particolarmente attuali e dibattuti, non soltanto in Italia, che andranno discussi e approfonditi nei lavori del prossimo Forum di Articolo 21, in programma ad Assisi.
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