E’ ripreso ieri nell’aula bunker del penitenziario di Silivri, dopo una pausa di quattro mesi, il processo a 31 tra giornalisti e amministratori del quotidiano turco Zaman e dell’edizione inglese Today’s Zaman, entrambe le testate chiuse dalle autorità turche all’indomani dello sventato golpe del 15 luglio 2016 contro il presidente Recep Tayyp Erdogan.
L’udienza si è svolta in un clima di grande tensione, mentre all’esterno un gruppo di manifestanti, sostenitori della libertà di stampa, veniva disperso dalla polizia.
Per tutti gli imputati l’accusa è di affiliazione a un’organizzazione terroristica, la rete Feto, che fa capo all’imam Fethullah Gulen in auto esilio negli Stati uniti accusato da Ankara di essere l’ispiratore del fallito colpo di stato.
Dei 31 operatori dell’informazione accusati, che hanno rigettato tutte le imputazioni, 22 sono in carcere mentre per gli altri è stata disposta la libertà vigilata.
Tra i colleghi più conosciuti e in regime di detenzione l’intellettuale ed editorialista, Mumtazer Turkone, lo scrittore Sahin Alpay e una delle veterane della stampa turca, la 73enne Nazli Ilicak.
Se la Corte li giudicasse colpevoli la condanna sarà l’ergastolo, se non più di uno. Per la precisione tre.
Lo scorso aprile era stata infatti questa la richiesta della Procura di Istanbul avanzando la teoria che gli imputati fossero complici del tentativo di rovesciare il governo turco e di essere una minaccia per le istituzioni nazionali.
Il dibattimento continuerà con una serie di udienze per tutta la settimana.
Subito dopo il fallito golpe tutto lo staff di Zaman, giornale riconducibile a Gulen, è finito nel mirino delle autorità turche con continui arresti, sequestro di copie e il commissariamento della testata, fino alla sua chiusura lo scorso anno.
Ma nelle galere di Istanbul, in attesa di processo o già sottoposti a giudizio, come i colleghi dello storico giornale di opposizione Cumhuriyet, ci sono oltre 170 giornalisti. E non solo turchi. Tra questi Deniz Yucel e Mesale Tolu, quest’ultima in carcere con il suo bambino di due anni, entrambi con nazionalità tedesca.
Ed è per loro, per ognuno di loro, che Articolo 21, ha lanciato da mesi la campagna #nobavaglioturco e ha chiesto a tutta la stampa italiana di illuminare le storie di chi dietro le sbarre non può più raccontarle.
Solo in questo modo possiamo contrapporci concretamente alle repressioni nel Paese che si abbattono indiscriminatamente su militari, società civile, mondo accademico e dell’informazione.
Dal tentativo di colpo di stato, la cui responsabilità è stata attribuita all’ex predicatore Fethullah Gulen, le autorità turche hanno infuso varie “purghe” e praticato epurazioni in tutti i settori pubblici, in particolare nelle forze armate, nella magistratura e tra gli insegnanti e gli intellettuali.
Recep Tayyip Erdogan ha più volte rivendicato i ‘successì’ dell’azione repressiva di cui è stato promotore affermando che sono state arrestate 50 mila persone, sono stati sospesi dal loro incarico circa 100 mila dipendenti pubblici e in 163 mila sono stati posti sotto indagine. E non è ancora finita, soprattutto ora che il Sultano ha avocato a sé tutti i poteri costituzionali e controlla la magistratura, come i processi farsa che si stanno susseguendo in queste settimane dimostrano ampiamente.