Mio padre è morto il 18 aprile 2011, in un cantiere edile, nella ditta per cui prestava servizio da 27 anni. Aveva 49 anni, era innamorato del suo lavoro, seppur gravoso e non sempre soddisfacente.
Cosa sappiamo di quel giorno? Sappiamo nulla o quasi. Ecco l’insostenibilità di questa situazione. Abbiamo informazioni dal racconto dalla persona che era con lui e che ne ha causato – certo senza dolo -la morte: una comunissima gettata di cemento, la betonpompa posizionata senza perizia troppo vicina ai cavi dell’alta tensione, nostro padre a terra intento a dirigere il getto e una scarica che lo colpisce non lasciandogli scampo.
Perché si trovava lì (e non nel cantiere dove regolarmente nei giorni precedenti aveva prestato servizio), perché questi due colleghi erano da soli, perché non c’era un tecnico responsabile, perché non indossava nessun dispositivo di sicurezza e molti altri “perché” ai quali abbiamo dovuto imporre il silenzio per sopravvivere a questo tremendo dolore in questi anni.
La procura della Repubblica di Messina, dove ahinoi sappiamo non esserci un Guariniello, dopo indagini durate fino all’inverosimile, ha rinviato a giudizio i cinque imputati. Da allora nessuno più in Tribunale ha battuto un colpo.
Possono la vita di una persona e il destino della sua famiglia rimanere imbrigliati nelle pastoie del carrozzone giudiziario? Una mancata notifica agli imputati, uno sciopero dei magistrati, poi le ferie estive, poi le feste natalizie, poi… poi… siamo arrivati a sette anni.
Ma ora con la spada di Damocle della prescrizione del reato che ci pende sul capo non è più il tempo del silenzio, del timido rispetto delle istanze di chi altri è coinvolto in questa oscura vicenda.
Ora è il momento di chiedere a spron battuto le risposte a uno Stato diritto che i miei genitori mi hanno insegnato ad onorare.
Sono convinto che una morte sul luogo di lavoro porta con sé un contenuto sociale; mi spiego meglio: queste morti avvengono – e l’Italia ha la maglia nera – a causa di un sistema socio-economico che non mette al centro i lavoratori, in particolare le categorie più fragili; si cade dai ponteggi, si rimane schiacciati sotto le presse, si muore folgorati per le pressioni di ogni sorta, perché si devono fare utili, perché non c’è tempo di investire sulla formazione alla sicurezza.
Uno Stato di diritto non può conoscere l’approssimazione in quello che concerne i diritti fondamentali della vita umana.
E poi c’è la vita di chi resta.
Mi sono iscritto successivamente a due liste di collocamento obbligatorio in due città diverse d’Italia, salvo scoprire allo stesso Centro per l’impiego che è tutta scena. Quanti si preoccupano di garantire un futuro a persone sconvolte da un evento così tragico?
Naturalmente ci siamo costituiti parte civile nel processo, ma non siamo fiduciosi che i risarcimenti possano esserci, e possano esserci nell’arco di una vita biologica.
Ora è il momento di riaffermare per nostro padre il diritto a vivere, a portare a compimento i suoi progetti, raggiungere la serenità della vecchiaia con sua moglie; il diritto di lavorare in condizioni umane per chi è rimasto; il nostro diritto a voltare pagina sapendo che la vita di nostro padre aveva un valore per la società (certo mai commisurabile in condanne o in risarcimenti) e non solo per i nostri cuori spezzati.