“Mafia, mafia e sempre sta mafia!”. Parole uscite dalla bocca del padrino Francesco Messina Denaro. Furono ascoltate da uomini di onore ai quali don Ciccio affidò di fare eseguire la condanna a morte del giornalista e sociologo Mauro Rostagno, ammazzato il 26 settembre del 1988 nelle campagne di Valderice, a Lenzi, quasi all’ingresso della comunità di recupero “Saman”. I pentiti le hanno ripetute nel processo che dinanzi alla Corte di Assise di Trapani, conclusosi nel maggio del 2015 con le condanne all’ergastolo contro il capo mafia di Trapani Vincenzo Virga, e il killer fidato della cupola trapanese, il valdericino Vito Mazzara. Don Ciccio non è finito sotto processo perché frattanto morto nel 1998. La voce di don Ciccio però non si è spenta. Sembra di ascoltarla ancora oggi. Certo non è più la sua perché oramai deceduto, ma è la voce di chi come il padrino di Castelvetrano oggi si mostra infastidito mentre ascolta e legge di altri giornalisti che sostengono che la mafia trapanese non è meno forte di ieri. E’ la voce di chi dietro processi importanti colloca scenari fantastici e fantasiosi, per smentire le piste che portano alle collusioni tra mafia, politica e impresa.
A 29 anni dal brutale e barbaro omicidio di Mauro Rostagno stiamo intanto qui ad attendere una sentenza definitiva. E’ in corso il processo di appello a Palermo, entro fine anno è prevista la sentenza. E’ vero che solo dinanzi ad una sentenza definitiva potremmo finalmente parlare di verità e giustizia raggiunte, ma è pur vero che leggendo le oltre 3 mila pagine delle motivazioni scritte in primo grado dai giudici Pellino e Corso, non possiamo dire che verità e giustizia non siano state già molto bene delineate nei loro contorni. La “firma” del delitto, rimasta non vista per decenni, colpa di incredibili depistaggi (che la Corte di Assise ha potuto però qualificare come false testimonianze), è quella di Cosa Nostra, la si è trovata sulle cartucce lasciate a terra, vicino all’auto dentro la quale Rostagno fu ucciso, sul fucile utilizzato , in quell’auto usata dai sicari (Mazzara non sparò da solo)trovata bruciata a pochi chilometri dal luogo del delitto, in uno scontrino di una macelleria dove i killer comprarono la carne per far banchetto mentre appostati aspettavano di prendere la via per Lenzi dove avrebbero eseguito l’ordine di Ciccio Messina Denaro. Erano andati a far spesa nella macelleria di un cugino del boss Virga, Cosa nostra trapanese trovò poi quattro sfigati muratori venuti a dire che erano stati loro a far spesa dal macellaio Virga. Un processo che la mafia non avrebbe mai voluto vedere celebrato. E l’intento sarebbe stato raggiunto se non ci fosse stata l’intuizione di un investigatore, l’allora capo della Squadra Mobile di Trapani, l’attuale direttore della Dia Giuseppe Linares. Scoprì che una comparazione balistica del delitto Rostagno con altri omicidi di mafia non era mai stata fatta. Linares è uno che conosce bene la mafia targata Messina Denaro (forse troppo bene tanto che quattro anni fa è stato promosso…e mandato dal ministro Alfano ad occuparsi di camorra a Napoli) e vide subito i tratti salienti del delitto ordinato dai vertici di Cosa nostra, riprendendo in mano quei fascicoli che la Polizia non aveva più trattato da quando l’indagine da subito era stata affidata ai carabinieri del tempo (uno degli investigatori, il maresciallo Cannas è sotto inchiesta adesso per falsa testimonianza). Linares trovò i verbali che erano rimasti quasi se non del tutto dimenticati. Collaboratori di giustizia che per tempo hanno raccontato del mal di stomaco che ogni giorno Rostagno provocava nei mafiosi: “ …perché era uno che tutti i giorni macinava a RTC (la tv locale, che oggi non esiste più, dove Rostagno lavorava ndr), lì… sempre contro… sempre… Cosa Nostra. Sempre: Mafia, mafia, mafia” e il motivo è questo…tutti ci lamentavamo di Rostagno, tutta la provincia di Trapani si lamentava di Rostagno”.
Un delitto compiuto proprio perché quella voce ogni giorno dalla tv battagliava contro Cosa nostra trapanese. A quasi 30 anni di distanza dal delitto altre inchieste e altri processi ci hanno fatto rendere conto che Rostagno si era giornalisticamente scatenato, con il suo stile, non contro un mafia qualsiasi, quella del racket o del mondo degli appalti, ma contro una mafia capace di arrivare fin dentro le stanze del potere istituzionale, quella mafia legata a doppio filo con la massoneria. Per questo, sono venuti a dire in Corte di Assise lo stesso Linares ma anche il suo predecessore Rino Germanà, spossessato dall’inchiesta sul delitto, Mauro Rostagno per la mafia doveva essere ammazzato. Non lo mostrava ma Mauro Rostagno sapeva bene contro chi stava scrivendo. Molti anni prima di riprendere in mano la direzione di un giornale, negli anni ’70 venuto a Palermo a guidare il movimento Lotta Continua, un giorno riunì la segreteria e chiese ai presenti se sapevano chi fosse l’avv. Vito Guarrasi. Lui già sapeva chi era. Uomo al centro dei più grandi misteri siciliani, con un piede nei salotti buoni della società palermitana e l’altro nelle stanze delle cosche mafiose. E a Trapani Vito Guarrasi aveva tanti seguaci. Sopratutto dentro certe logge della massoneria.
Rostagno fu ucciso mentre si apprestava a raccontare in tv gli affari di mafia e massoneria. Cosa nostra evitò con la sua morte un corto circuito che avrebbe potuto renderla finalmente violabile. Oggi è vero che tante cose sulla mafia trapanese si conoscono. Si è svelata la sua organizzazione militare. Ma la mafia non è stata sconfitta. Potrà esserlo quando sarà debellata anche quella economica e politica, violata ma non colpita a morte. Cosa nostra resiste, ha riorganizzato il suo essere organizzazione segreta, la massoneria trapanese l’ha pienamente accolta nelle sue logge. Rostagno è stato ammazzato 29 anni fa, siamo qui ad occuparci ancora degli argomenti che lui affrontò da giornalista, le connessioni tra mafia trapanese e massoneria. Tra la mafia e settori delle istituzioni che non rispettano la distanza di sicurezza dai mafiosi. Lo scenario di oggi sembra essere quello degli anni ’80, quando a Trapani c’era solo un pugno di magistrati, giudici e investigatori ad occuparsi di mafia, e pochi cronisti a raccontare queste indagini.