BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

L’ultimo “amico” va via

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Gastone Moschin, però, fu tanto più- Attore scrupoloso, poliedrico, gentile (ma detestava chi gli dava del “bonario”)

Adesso che anche Gastone Moschin ha raggiunto il mondo dei più- con senile  pudore e senza smanie di protagonismo sentenzioso, tardivo- sarebbe cosa buona e giusta se la si smettesse, per ogni dove (mediatico) di “identificarne” la duttilità, la cortesia, la sapiente ‘leggerezza’  di interprete (a suo agio in quasi ogni ambito della cultura scenica) con il solo ruolo che gli dette meritata notorietà nazional-popolare. Cioè quel sapido, serafico, impunito architetto sentimentale, di nome Rambaldo Melandri, che nel celeberrimo (toscanismo) trittico di “Amici miei” (cult-movie di meritata fruizione evergreen) trastullava i suoi candori onirici nell’accedere al fonte battesimale per amore della statuaria sorella d’un prete. E poi, nell’ordine, dare entrambe le mani ai compagni ‘di infantil-disincanto’ nel rito dello schiaffo alla stazione di Firenze all’inno di “come stiamo bene insieme..perchè non siamo nati finocchi?”; “vedere la Madonna” durante una degenza ospedaliera (incidentato e ingessato sino al collo con gli omologhi, casinisti csodali di zingarate), salvo accorgersi che “la colei” è già congiunta al cinico primario Adolfo Celi, ben contento di “disfarsene” tramite cessione al grullo di buon cuore (“mi raccomando…il cane e i bambini…prenzerò con voi la domenica, e sorveglierò”) e pronto soccorso sentimentale, non appena al buon Melandri andranno  i nervi in discarica (“credimi, tu questa donna non la reggi..dileguati in silenzio” “ma io la amooo!” “pure io…ma preferisco starle lontano”).  Basta così. Fine dello spettacolo per chi si attiene al farsesco.

Quel che serve è,  invece ed in exitu, ‘risarcire’  Gastone Moschin del  talento, valore, tenacia con cui seppe costruire una poliedrica carriera (al pari di altri grandi dello spettacolo italiano dello scorso secolo, da Randone a Turi Ferro, da Buazzelli a Tognazzi) cui madre-natura lo aveva esposto ai laschi  ruolo di caratterista. E che invece Moschin, per completezza, raffinatezza, umanità di mimesi riuscì ad ampliare verso forme di sobrio ed  autorevole protagonismo. Come, a nostra memoria, fu-inizio anni novanta- la sua stupenda prova d’artista teatrale in “Erano tutti figli miei”, “Uno sguardo dal ponte”, “Il gabbiano”- trittico di allestimenti prodotti e divulgati dalla Compagnia di cui era  (scrupoloso) regista ed impresario, con il basilare sostegno della amata figlia Emanuela.

D’altronde, pur provenendo dalle filodrammatiche del Veneto (nato nel 1929 in provincia di Verona, avventizio impiegato di banca dai 18 ai 20 anni), la formazione professionale di Moschin rispondeva a tutti i crismi di un iter formativo fortemente selettivo. Diplomatosi, con encomio, all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma (fondata e a quel tempo diretta da Silvio D’Amico), il giovane Gastone debutta a teatro con un poker di opere da far tremare i polsi (“Ivanov”, “I demoni”, Platonov, “Misura per misura”). E che dal 1955 al 1960 lo vedono primeggiare in quell’alveo  di “tetro di regia”(Strehler, Squarzina, Bochi, Ferrero) che dischiuse all’affidabile  interprete- ”così  massiccio, ma elegante, affabile, sorvegliato” -un approdo sicuro  agli  sceneggiati televisivi di una Rai pionieristica ma di quotidiana alfabetizzazione al “sapere”.

È grazie al ‘nuovo mezzo’ che il  pubblico del tempo inizia a conoscerlo, stimarlo, fidarsi di quel suo viso “romantico-contadino”   dotato di una  verve naturale   spaziante dai toni grotteschi  a quelli di una cruda drammaticità “verista”: come fu per “Il mulino del Po” e “I miserabili”, titoli fondamentali per chiunque voglia conoscere la storia delle immagini e dell’immaginario- collettivo del nostro secolo-breve (ma non poi tanto).

Spaziando agevolmente dalla gentilezza d’animo all’occasionale buffonesco-falstaffiano, Moschin inizia ad essere valorizzato nel cinema già dal 1960, con “L’audace colpo dei soliti ignoti” di Nanni Loy (da antologia il suo cammeo di timido rilegatore di libri) , quindi proseguire con “Che gioia vivere!” (1961) di René Clément e “Tiro al piccione” – dello stesso anno – di Giuliano Montaldo.

Frugale e compito, sia sul set che nella vita privata, Moschin è uno dei comprimari (o “partecipazioni”) più richieste delle pellicole italiane (ce ne fossero ancora…) genericamente definite di media-produzione (artigianale). Accreditato quindi, e in ruoli di bella evidenza,  in “Anni ruggenti” (1962) di Luigi Zampa, “L’amore difficile” (1963), “La visita” (1964) di Antonio Pietrangeli (“la sua opera più amara e malinconica, la migliore”- tramanda Morandini)

Il 1965 è poi  l’anno del sapido, spietato, antiperbenista “Signore e signori” di Germi (Palma d’oro a Cannes, stima per l’attore che inizia a diffondersi in Francia e non solo), laddove, partner di Virna Lisi sbozza, con cuore trafitto e dignità calpestata, il ruolo di un marito schiavizzato (dalla appropriata Nora Ricci, ex moglie di Gassman) “che persegue, tappandosi le orecchie con la cera, il sogno del suo amore sputtanato e ormai solitario”- commentava il prezioso amico Giulio Cattivelli.

“ Una moglie giapponese” (1968) di Gian Luigi Polidoro (altro schivo autore da riscoprire) lo vede protagonista, nel ruolo  di un ragioniere italiano, trasferito  in estremo Oriente dove prende coscienza  della superficialità di usi e costumi occidentali “esportati” in tempi non sospetti (di globalismo finanziario), ma già in solluchero per consumi ed edonismi un tanto al chilo.  Degna di nota è poi, nel 1966, la sua partecipazione a “Le stagioni del nostro amore”, ambiziosa ma ‘auto-indulgente’ opera di Florestano Vancini, di cui è  pertinente protagonista Enrico M. Salerno.

Gli anni 70 furono invece (ed a parte il trittico di “Amici miei”, soggetto di Germi, regie di Monicelli e Loy) quelli che tentarono (artificiosamente) di sfruttare l’apparente durezza di quel tratti somatici d’attore ‘mastino’ per ruoli di guappo, malandrino, callido emissario di Padrini: certamente  i più remunerativi ma i meno consoni alla natura e personalità del simpatico compagnone  da entroterra veneto (cosi rimasto “in cuor mio”- confidava). Fu sua, ad esempio, la parte  del “maluommo” napoletano ucciso da Vito Corleone /Robert De Niro nel  “Padrino – Parte II” (1974) di Francis Ford Coppola (che lo voleva in America, in pianta stabile, per altre facce da ‘mauvais’).

Così come atra, ambigua, fulminea è la sua apparizione (di impacciato  delatore fascista)  in “Il conformista (1970) di Bernardo Bertolucci (altro film tutto da rileggere in chiave onirica).    Dopo la ‘vacanza’ (in prima classe) di “Don Camillo e i giovani d’oggi” (1972) di Mario Camerini, Moschin torna sul set di Vancini per il robusto, corale e lineare  “Il delitto Matteotti” (1973). Seguito da  film più commerciali, a riprova che  nessun attore (vivente del suo lavoro) è  esentato dall’alternanza inflessibile di  ‘qualità e quantità’. Comunque, anche in quest’ambito, Gastone Moschin utilizza il suo poliedrico talento per spaziare dallo sgargiante, fragoroso, in fondo spassoso  “Ninì Tirabusciò” (a fianco di Monica Vitti) al pedestre zio crapulone di “Paolo il caldo” (regia di Marco Vicario, dal romanzo di Brancati).

Non mancherà poi al richiamo del poliziottesco di ‘bocca buona’ con “Milano calibro 9” (1972) di Fernando Di Leo, in cui  interpreta Ugo Piazza, criminale braccato e al cardiopalma, sospettato dai suoi complici di aver fatto fori ‘le rififi’ .

Negli anni ’80 è  protagonista  di  “Si salvi chi vuole” (1980) di Roberto Faenza, dove interpreta un politico  comunista di scarsa tenuta ideologica, pertanto arreso alle (insidiose) comodità   del benessere fuggente e familista. Primeggia ancora in “Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada” (1983) di Lina Wertmüller  e “Una spina nel cuore” (1986) di Alberto Lattuada.

Avvertendo quei  malanni cardiaci che lo indurranno ad attenuare i suoi impegni (“non quelli della vita”)-e le sortite teatrali cui si accennava- Gastone si rilassa sul comico-funambolico di “Donne con le gonne” (1991) di Francesco Nuti e sul  fiabesco (pasoliniano)  “I magi randagi” (1996) di Sergio Citti, con l’inveterata combriccola di Ninetto Davoli, Laura Betti, Silvio Orlando, Elide Melli, Mario Cipriani e Franco Citti.

A inizio millennio si torna alle origini, ovvero in televisione, per la serie “Sei forte maestro”  e alcuni episodi di  “Don Matteo I – II”, dove è un “vescovo avvezzo ai lazzi”. Nel frattempo, in Umbria, Gastone realizza il segreto sogno della sua vita: amando i cavalli sin da ragazzo inaugura un bel maneggio con  annessa ippoterapia “per equini ed umani in  buona, naturale empatia”.  Lasciando inevasa  la proposta (che gli suggerimmo durante un’intervista) di cimentarsi con il vero ruolo (da immenso veneto) del “Sior Todero brontolon” di Goldoni. O, in alternativa, con “La famiglia dell’antiquario”.   “Possiamo parlarne- sussurrò- ma farà lei da impresario?

Come no? Nello Smirne…


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