Il giornalismo come un viaggio, la vita come una straordinaria avventura: questo è stato Luigi Barzini, ossia la quintessenza dell’inviato e dell’inviato di guerra in particolare, avendo affrontato in prima linea praticamente tutti i conflitti che hanno insanguinato la prima metà del Novecento.
Girò il mondo e lo vide cambiare con i propri occhi, assistendo di persona alle battaglie e alle vicende storiche che hanno segnato il secolo, sfociando in due conflitti mondiali devastanti.
Fu testimone della battaglia di Mukden in Manciuria e della conferenza svoltasi ad Algeciras, vide da vicino la Francia, la Gran Bretagna e la Russia, divenne un mito planetario, stimato e apprezzato ovunque, e compì il passo più lungo della gamba quando decise di trasferirsi a New York e di assumere il ruolo di editore per cui, purtroppo, non era tagliato.
Per oltre vent’anni, insomma, fu una sorta di leggenda, poi iniziò per lui un lento e disperante declino, segnato oltretutto da alcune tragedie familiari che lo minarono nello spirito, costringendolo, alla fine, ad assumere la direzione dell’agenzia Stefani per tentare di venire incontro al figlio Ettore, internato nel Campo di Fossoli. Non ci fu nulla da fare: Ettore Barzini morì in prigionia in Germania nel marzo del ’45, inducendo il padre a dimettersi dalla guida della Stefani.
Questa scelta straziante, e umanamente più che comprensibile, gli costò comunque una condanna da parte dell’Alta Corte di giustizia nonché l’inibizione ad esercitare la professione giornalistica.
Quando riuscì a tornare al Corriere, negli ultimi anni di vita, venne praticamente nascosto dal giornale, che con ogni evidenza si vergognava di quella che era stata una delle sue firme più celebri e stimate, e confinato nella biblioteca-archivio di via Solferino, costretto a un isolamento e ad uno stato d’abbandono che non avrebbe mai meritato.
E così, vedovo dell’amata moglie Mantica, solo e dimenticato da tutti, nell’indifferenza di un ambiente che non dimostrò nei suoi confronti né pietà né quel minimo di rispetto e riconoscenza cui invece avrebbe avuto diritto una personalità del suo calibro, se ne andò a Milano all’età di settantatre anni, concludendo la sua corsa come peggio non si sarebbe potuto.
L’uomo che nel 1907 aveva vinto il raid Pechino-Parigi, assurgendo, si può dire, al rango di eroe nazionale, quarant’anni dopo venne gettato via, pagando anche colpe non sue e rimanendo sostanzialmente vittima della propria ingenuità e di una concezione epica del vivere che non aveva nulla a che vedere con il cinismo imperante in una stagione caratterizzata dagli odi e dalle vendette, dalle rappresaglie e da un’infinita serie di rese dei conti che coinvolsero, purtroppo, anche dei galantuomini che dal fascismo, spesso, avevano subito non meno torti dei loro accusatori.
Ricordare Barzini è, dunque, un buon modo per opporsi alla barbarie di oggi e di sempre, specie in una fase storica in cui la sua parabola e la sua discesa agli inferi costituiscono un destino, ahinoi, comune a molti.