Ha pure un cognome da predestinato, Butungu, che evoca qualcosa di demoniaco. Sul capobranco dello stupro di Rimini non si stanno accanendo giustamente tutti quelli che odiano la violenza, ma anche tutti quelli che lo prendono a pretesto per strumentalizzare la sua pelle nera. Certo i quattro della vergogna sono di colore ma sarebbe stupido ribattere con molti altri fatti, simili, che chiamano in causa gli italiani perché un delitto bieco come lo stupro non ha nazionalità. Superata da tempo l’asticella dell’umanità ci ritroviamo non solo la violenza sulle donne ma anche un italiano massacrato di botte da cinque buttafuori tutti italiani come se anche lì non ci fosse la regola del branco, così come a Catania dove un gruppo di ragazzini ha quasi ammazzato un vigile urbano reo di aver ripreso un piccolo balordo senza casco. Insomma la conferma che sotto tutte le latitudini di età e situazioni ci si sente forti solo quando si è in tanti, compreso lo stadio o i social, terreno dell’ultimo odio.
Ma non è questo il punto, lo so. Il problema di Guerlin Butungu non è neppure quello che di orripilante ha fatto ma il suo profilo che pare fatto apposta per appagare chi è contro la politica dell’accoglienza. Arrivato a Lampedusa due anni fa aveva il permesso di soggiorno per motivi umanitari ed aveva chiesto l’asilo politico. Allora la questione è questa. Butungu arriva dal Congo. C’è qualcuno forse che si è informato su cosa succede in Congo? Sa che quella terra è così ricca (soprattutto di diamanti) che ci sono microguerre praticamente da sempre, che nello scontro tra soldati e miliziani si susseguono uccisioni di massa e che c’è una fame talmente acuta che ci sono otto milioni di persone in fila per la fuga? La condizione di rifugiato dunque c’era tutta e oltretutto nella comunità che lo ha accolto non ha mai creato problemi. Come si faceva a sapere che probabilmente spacciava, di sicuro si drogava entrando in quel vortice di follia che può prendere chiunque, di qualsiasi etnia. E’ successo a quel ragazzotto di Latina che ha stuprato qualche giorno fa una turista nel Salento, o a luglio quando una ragazzina di 16 anni è stata violentata da tre minorenni a Napoli o quando qualche tempo prima a Pimonte una di 15 anni venne violentata da un branco di dodici minorenni (che il sindaco la definì una bambinata), o ancora il primo agosto quando una ragazzina di 15 anni è stata violentata da cinque ragazzi (di cui quattro minorenni) a Bari e poi ricattata con i video. Sui giornali tutte vicende liquidate in poche righe. Ma soprattutto zero indignazione.
Facciamo piuttosto un grande applauso alla polizia, magari consigliando di non appartarsi più sulla spiaggia perché non esistono più isole felici, e chiediamo per l’ennesima volta la certezza della pena. Certe bestie, al di là del colore, devono marcire in galera. Come tutti i protagonisti scellerati di femminicidi. Le leggi ci sono, basta applicarle. Pensate che, alla richiesta di estradizione, abbiamo scoperto che le belve in Italia rischiano 20 anni di galera, in Polonia al massimo dodici. Ecco, che le facciano passando il resto dell’adolescenza dietro le sbarre, fuori dalla società civile. Per quattro criminali non si può sbattere la porta in faccia da chi scappa realmente da morte e carestia.