Ancorché abbia fama di abilità tattica, il ministro Franceschini ha fatto uno strano uno-due. Da una parte ha voluto a tutti i costi una modestissima legge sul cinema (n.220 del novembre 2016) in cui l’universo degli autori e delle esperienze indipendenti è stato maltrattato a favore delle produzioni più potenti, dall’altra ha varato un coraggioso decreto legislativo sulla promozione delle opere europee e italiane che abbisognerebbe proprio del sostegno attivo delle categorie indebolite. Infatti, la valorizzazione delle “quote” contraddice in parte lo spirito conservatore della norma-madre. E così, l’abile Dario ha trovato freddezza e voglia di rinvio a palazzo Chigi, rafforzate dalla plateale ostilità delle emittenti televisive, pressoché tutte. Rai, Mediaset, La7, Sky, Discovery e così via hanno chiesto lo stop del provvedimento, forti del loro enorme potere di influenza sul ceto politico. C’è aria di trattativa, ora. Forse il testo approderà nel consiglio dei ministri della prossima settimana. Ma, c’è da giurarci, l’articolato nel frattempo si stempererà. Salvo miracoli laici.
Del resto, il tema delle quote è attraversato da un forte conflitto sul controllo delle risorse. I broadcaster hanno l’interesse a riempire i palinsesti di programmi chiavi in mano curati dai “procuratori” (vedi la polemica al riguardo in seno alla commissione parlamentare di vigilanza) e di talk seriali. Il mondo dell’industria culturale chiede, invece, qualità e spazi originali, che certamente renderebbero migliori i contenuti. Anzi. Se passasse l’obbligo di programmazione di opere europee per il 55% del tempo (60% dal 2019) ivi compresa la sotto-quota del 30% (40% dal 2019) per il marchio italiano, la serata televisiva finalmente si spezzerebbe. Il dovere imposto tocca anche, infatti, la fascia tra le ore 18 e le 23: si interromperebbe la strisciata dei quiz, del telegiornale e del lunghissimo contenitore che segue. Tornerebbe la seconda serata. Tuttavia, se il ritocco riguardasse qualche maggiore processualità temporale, non vi sarebbe nulla di scandaloso. Guai, invece, a manomettere il capitolo degli obblighi di investimento. Le stazioni commerciali sono richieste di spendere in acquisti e produzione di opere europee il 15% dei propri introiti netti (il 20% dal 2019), con una sotto-quota del7,5% riservata alle opere italiane (10% dal 2019) e con un’altra del 75% a favore dei produttori indipendenti (definizione da chiarire, in verità). Alla Rai spettano rispettivamente il 20% (30% dal 2019) e il 30%, mentre al lavoro italiano va il 12,5% (15% dal 2019) con il 5% rivolto all’animazione. Tradotto in vile danaro: dai 700/800 milioni di euro di oggi si passerebbe a circa 1,3 miliardi. Assai meglio di quanto prevedesse il vecchio articolo 44 del Testo unico del 2005, adesso profondamente cambiato, pur senza intaccare ancora l’Impero degli Over The Top.
Niente di rivoluzionario, intendiamoci. Non solo c’è il positivo caso francese ai nostri confini, ma l’Unione europea ha sancito da tempo, fin dall’importante direttiva del 1989, la linea della “diversità culturale” inaugurata da Jack Lang negli anni ottanta, e ripresa dal centrosinistra italiano del 1998 con la legge n.122. Quest’ultima fu ostacolata fino alla fine, persino in modo sconcertante, dal “duopolio”. Passò, a dispetto delle lobby.
L’associazione degli autori (Anac) ha scritto un efficace appello al governo. In fondo, si chiede al governo e al presidente Gentiloni di essere europei.