Jeep c’è scritto sulle maglie bianconere della Juventus, e sembra di riconoscere un presagio. In Italia il nome Jeep è stato sinonimo per decenni e probabilmente lo è ancora, di auto fuoristrada, agile, scoperta, duttile a ogni uso militare e civile. Immagino sia stato così in gran parte del mondo, prima dell’avvento di altre sigle più tecniche, 4WD (Four wheels drive), Trazione Integrale, SUV (Sport Utility Vehicle), Crossover, 4X4, e tanti modelli specifici dotati di equivalenti caratteristiche. Ma la Jeep è unica e insostituibile nell’immaginario collettivo, al punto che un’industria automobilistica cinese, la Great Wall (La grande muraglia!) vuole appropriarsi in esclusiva del marchio; e se ciò non fosse possibile è disposta ad acquistare in blocco, costi quel che costi, la FCA, cioè la Fiat Chrysler Automobiles, abilmente assemblata da Sergio Marchionne e di cui attualmente fanno parte i marchi FIAT, Jeep, Chrysler, Dodge, Alfa Romeo, Maserati, Lancia e Abarth.
A corredo della notizia finanziaria, sono riapparsi sui giornali gli articoli di costume, e soprattutto un fiorire di immagini della inconfondibile Jeep utilizzata in innumerevoli film americani, fino a quando venne promossa a personaggio cinematografico in Cars, la pellicola di animazione della Pixar. Ma nessuno ha ricordato, anche perché in pochi lo sanno, che l’antropomorfizzazione della simpatica Willys è una idea originaria (e originalissima) di Federico Fellini, che risale a più di settantatre anni fa, al tempo della II Guerra Mondiale.
Torniamo in flashback agli ultimi mesi del 1944 a Roma, sbirciamo oltre la porta di un ufficio al quarto piano di via Crispi, angolo via del Tritone. Fellini aveva 24 anni, da un anno era sposato con Giulietta Masina incontrata alla radio (EIAR) durante la realizzazione di un rubrica da lui scritta e da lei interpretata, intitolata Cico e Pallina. Riannodiamo gli invisibili fili del destino.
Quando Roberto Rossellini e Sergio Amidei (autore del soggetto) decisero di realizzare Roma città aperta, si rivolsero a Fellini per invitarlo a partecipare alla sceneggiatura, ma con lo scopo di arrivare, tramite lui che gli era amico, di convincere Aldo Fabrizi a partecipare all’avventura: attore comico popolarissimo, con il proprio nome in cartellone sarebbe stato in grado di garantire distribuzione e finanziamenti del film.
I soldi infatti scarseggiavano, malgrado la produzione disponesse di una sede centralissima in via Francesco Crispi, appunto. Si chiamava Nettunia Film e faceva capo alla contessa Chiara Politi, moglie morganatica del Re Fuad d’Egitto, che Rossellini chissà con quali arti incantatorie era riuscito a persuadere a quell’impresa.
Nei locali situati proprio sopra il bar-biliardo Mokaino, una stanza era occupata dall’ amministrazione, una seconda dalla produzione di Roma città aperta, e nel terzo stanzone, lavoravano a testa bassa i disegnatori, i bozzettisti e gli animatori del cartone animato intitolato Hallo Jeep!. In mezzo a loro indugiava spesso anche l’autore del soggetto e della sceneggiatura del cartone animato, e cioè il giovane umorista Federico Fellini, “magrissimo, con un testone dalla chioma rigogliosa, sorridente, un marcato accento emiliano e una vocina chioccia quanto canzonatoria”. Così lo ricorda Alvaro Zerboni, futuro direttore di Playboy oltre che creatore di innumerevoli testate popolari ad altissima tiratura. Preziosa testimonianza la sua, perché si offre una data decisiva per collocare l’impresa:
“L’ufficio di via Crispi era al quarto o quinto piano di un imponente edificio, provvisto di uno scalone da cui tante volte avevo visto discendere il giovane Fellini, già con la sua sciarpa intorno al collo e il cappello in testa alzato sulla fronte. Io che avevo tre anni meno di lui e tentavo vi fare l’animatore di fumetti, lo guardavo affascinato perché tutte le settimane leggevo i suoi raccontini sul Marc’Aurelio, oppure ascoltavo le scenette che scriveva per la radio e ne ero proprio entusiasta. In redazione scherzava sempre. Anzi ho un ricordo preciso. Il giorno in cui gli arrivò una telefonata, lui andò a rispondere ed era Giulietta Masina che gli annunciava la nascita del figlio (Pier Federico detto Federichino (venuto al mondo il 22 marzo 1945 n.d.r). E lui le domandava divertito e un po’ commosso all’apparecchio: “E’ racchio? E’ racchio?” Un termine in voga tra i giovani per via di una fortunata rubrichetta del Marc’Aurelio intitolata Genoveffa la Racchia”.
E’ del tutto verosimile che il cartone animato, realizzato durante le settimane di preparazione di Roma città aperta (1945) con la medesima produzione (la Nettunia Film) sia finito negli Stati Uniti seguendo l’affarista americano Rod Geiger, il quale comprò in un unico pacchetto i diritti di distribuzione del capolavoro di Rossellini e del film di animazione.
Si comprenderebbe allora perché dopo il 1945 e al termine di tre mesi di lavorazione, sia sparita ogni traccia di questo straordinario reperto.
“Non esisteva una trama vera e propria – precisa Zerboni – la vicenda era affidata a un susseguirsi di gag che Fellini aveva già schizzato in una serie di vignette e raccolte in un canovaccio figurato che attualmente chiameremmo story-board del film: una Jeep usciva dalla fabbrica e affrontava in guerra uno Stukas tedesco. In quel periodo La Jeep era popolarissima, essendo l’auto in dotazione all’esercito americano che, si diceva, avesse vinto la guerra anche grazie a quell’innovativo mezzo di trasporto. E Federico l’aveva promossa a protagonista, a eroina del cartone animato.”
Purtroppo i dodici milioni di lire (di allora) investiti nell’esperimento si erano rapidamente prosciugati: “I materiali scarseggiavano, la pellicola impiegata era un triacetato di celluloide infiammabile, anch’esso un residuato bellico. In tempo di guerra era praticamente impossibile reperire i più canonici rodovetri, ed era stata già una fortuna trovare d’occasione quelle vecchie celluloidi, di cui qualcuna sicuramente già usata. Così il film fu realizzato “alla chetichella” presso il Ministero della Difesa e dell’Aeronautica dotato di una sezione di ripresa a passo uno, in cui lavorava l’operatore Riccardo Grassetti.”
Un escamotage all’italiana che rese possibile la conclusione del cortometraggio, di cui tuttavia più nessuno ebbe notizia. “La durata del film, a colori, – rivela Zerboni – si aggirava attorno ai dieci minuti. L’intero gruppo di animatori fu impiegato per almeno tre mesi: si procedeva a tozzi e bocconi, fino a quando la contessa Politi, produttrice della Nettunia Film, vendette Roma città aperta ancora incompleto a un ufficiale delle forze armate americane (Rod Geiger, n.d.r.), lasciando in sospeso la realizzazione del cartoon. Il nuovo produttore provvide a finanziare le brevi riprese di raccordo ancora mancanti di Roma città aperta, chiamati nel gergo cinematografico fegatelli, ma non si curò di Hallo Jeep! che chiuse definitivamente i battenti.”
Federico aveva dunque genialmente umanizzato la simpatica fuoristrada in dotazione alle truppe americane, la mitica Jeep Willy’s MB modello 1942, per gli amici semplicemente Willys. Anzi l’aveva trasformata in una piacente signorina che insieme al carro armato Hermann, l’eroe maschile schierato dalla parte dei liberatori, combatte contro uno Stukas, il leggendario caccia bombardiere monomotore, biposto, della tedesca Lutfwaffe.
Nella vicenda non apparivano esseri umani, ma soltanto macchine umanizzate. Il carro armato Hermann, per esempio, aveva un muso a proboscide come un elefante, che era poi il cannone espressivamente reinterpretato. Impossibile non domandarsi come mai di di una impresa tanto innovativa, di un prodotto cinematografico così singolare, non sia rimasta praticamente traccia, non si sia saputo più nulla. Scomparso, cancellato dagli archivi.
La spiegazione più verosimile è che gli americani, insieme al film (giacente in qualche cineteca degli States), pensarono bene di tesaurizzare l’intuizione geniale che conteneva. La quale infatti, alcuni decenni dopo, riapparirà nuova di zecca nell’industria hollywoodiana, ormai al sicuro da ogni pretesa di copyright.
Però esiste anche un’altra ragione, più banalmente sentimentale, che è ancora Alvaro Zerboni a rivelarci, testimone oculare di questa incredibile vicenda: nessuno degli autori rivendicò mai la proprietà artistica del film in quanto si riteneva che Hallo Jeep! portasse male, fosse accompagnato dal malaugurio. E aggiunge:
“Mi ricordo che dopo tanti, tantissimi anni, una volta che con Fellini eravamo a pranzo insieme e provai a parlargli di Hallo Jeep!, egli glissò rapidamente. Al film infatti erano collegate varie vicende sinistre; si disse in particolare che lo iettatore fosse il musicista. Si era verificata tra i partecipanti al film una successione di morti violente, di suicidi, di disastrosi fallimenti, che avevano suggerito di mettere da parte quel progetto. Che venne di fatto sepolto, dimenticato. Ma vi assicuro che se tornasse fuori si griderebbe al capolavoro!”.