Gastone Moschin non è morto: si è solo spostato un po’ più in là. Diciamo che è andato a ritrovare i suoi amici lassù, desideroso di tornare a recitare ma, soprattutto, di incontrare nuovamente coloro grazie ai quali è diventato un attore importante e poliedrico, stimato e apprezzato ovunque e in grado, cosa assai rara, di coniugare l’alto e il basso, dimostrando che non è affatto vero che i vari registri siano inconciliabili.
Seppe, infatti, essere grande tanto in “Amici miei” quanto ne “Il padrino parte seconda”, nei polizieschi e negli sceneggiati televisivi di Sandro Bolchi, e seppe anche invecchiare, cosa ancora più rara, evitando di esibirsi in parti da giovincello quando l’età ormai non glielo consentiva più e interpretando, ad esempio, il ruolo del vescovo nelle prime due serie di “Don Matteo”.
E no, non recitava quando vestiva i panni dell’architetto Rambaldo Melandri: era se stesso, con la sua carica umana di ironia, di travolgente simpatia, di esuberanza, con quella visione scanzonata e un po’ naïf della vita stessa, quel suo lasciarsi andare, quel suo credere profondamente in valori ormai desueti e, infine, quella sua rivendicazione di autenticità e di gentilezza che tanto manca ormai alla nostra società incattivita.
Gastone Moschin, veronese di San Giovanni Lupatoto, classe 1929, in ottantotto anni trascorsi su questa Terra non ha mai smesso di sperare, non si è mai abbandonato al cinico disincanto attualmente in auge fra alcuni suoi colleghi e non ha mai smesso di scrutare il mondo con la curiosità e l’intelligenza di un vecchio saggio, tale già a trent’anni, che con l’andar tempo ha saputo fare i conti con se stesso e con i propri limiti, accettando il declino senza patemi d’animo e tentando di restituire, almeno in parte, la notevole fortuna professionale e i numerosi insegnamenti ricevuti.
E ora che ha ritrovato la gioia ed il suo mondo, amici cari come Mario Monicelli e Nanni Loy, Ugo Tognazzi e altri protagonisti di quelle supercazzole bonarie che, in fondo, altro non erano che un riflettore puntato sull’aspetto amaramente felice della nostra vita quotidiana, ora l’architetto Rambaldo Melandri è di nuovo al suo posto, pronto a ridere, a vivere, a sognare, a guardare fisso negli occhi il proprio interlocutore e ad eliminare dal suo sguardo quella patina di seriosità che ogni tanto, inevitabilmente, vi si deposita. A Moschin non è mai capitato, per il semplice motivo che aveva vinto la sfida più importante: quella di accettarsi per com’era e di estendere questo principio al prossimo.