Si ride fin dal capitolo di presentazione, intitolato La notte bianca, con riferimento all’Estate Romana e alle ammucchiate culturali (“Andiamo ad ascoltare i canti occitani”. “Ma dov’è l’Occitania?” “Mah, sarà uno di quei nuovi paesi della Russia”); quando invece l’allusione, ben più crudele, è a una condizione poco ludica e terribilmente personale, su cui c’è poco da scherzare. Ben calzante, in proposito, l’acuto aforisma di Charlie Chaplin che l’autrice riporta a taglio vivo: «La vita vista in primo piano è una tragedia, in campo lungo una commedia».
Si ride volentieri, quasi a ogni riga, nel libro di Cesarina Vighy. E dove non si ride si sorride, ammirati dall’intelligenza, dalla prosa satura di fosforo e di ironia, dalla capacità scintillante e affilatissima di riferire qualsiasi osservazione sulla realtà senza mai rinunciare a un retrogusto di irrisione: “Mi diverte sempre la battuta di un famoso cardiologo che, interrogato su quale sport praticasse, rispose: «Le passeggiate al cimitero per accompagnare gli amici morti facendo jogging».”
Il racconto è intarsiato con dovizia di citazioni esilaranti, che affiorano di getto sulle labbra di una persona colta, disincantata, fornita di copiose letture; la quale trattiene ogni nettare grazie a un cervello prensile, nitido, mai appannato, mai incline all’accomodamento. Eppure la materia della narrazione è tutt’altro che amena.
L’ultima estate di Cesarina Vighy riecheggia il titolo glamour di un film vacanziero, e si rivela invece quale l’estrema stagione di vita della scrittrice, la quale riuscì a dare alle stampe questo libro e appena un anno dopo, il 1 maggio 2010, traslocò ai Campi Elisi.
Il suo romanzo edito da Fazi, vinse il Premio Campiello, fu in finale al Premio Strega, investì con un’onda sismica il sonnolento mondo letterario e fu molto amato dai lettori. Da oggi lo troveremo di nuovo in libreria in una edizione rinnovata e arricchita di poesie e testi inediti. Un capolavoro in cui sprofondare, travolti dal flusso di coscienza dell’io narrante, e riemergere solo al momento di richiudere la copertina, come è accaduto a me, a fine pomeriggio, stordito di felicità. E di amarezza, e commozione, e interrogativi senza risposta, O forse di risposte senza interrogativi.
Cesarina è morta a 72 anni di SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica) una patologia neurologica degenerativa che ghermisce senza scampo, togliendo via via all’organismo ogni funzione, anche quella respiratoria: “Il medico mi aveva assicurato che avrei mantenuto le mie facoltà mentali intatte sino alla fine; allora la scambiai per una promessa mentre ora capisco che si trattava di una minaccia”. Quando comprende che non c’è più nulla da fare, decide di raccontare la propria vita, a suo modo, intonando una rapsodia e non una marcia funebre, suonando le variazioni su una tastiera di sublime armonia, affidandoci il suo canto libero senza più bisogno di nascondere nulla; la malattia l’ha affrancata anche da ogni calcolo di opportunità, da ogni segreto, da ogni vittimismo. Lei sola con la pagina: “Patti chiari: non sarà un acquerello, piuttosto un’autopsia. Forse vi farò male. Ne farò anche a me.”
La scrittura le permette di continuare a soggiornare dentro un’esistenza in cui non è concesso quasi nulla: il corpo non risponde più, lo spazio intorno si restringe ogni giorno, alla fine rimane una cameretta, un lettino, una finestrella da cui la protagonista intravvede una merla che si affanna a costruire il nido nella fessura di un platano: “Guardo attraverso la finestra il pezzettino di mondo che mi spetta e, nonostante tutto, lo trovo bello.” Le chiome dei platani cadono sotto la falcidie dei potatori del comune: “Ho pianto (mi ci vuole poco), ho pensato che sarebbero rimasti così, nudi e crudi e vergognosi, senza ombra né uccelli, fino all’anno prossimo. L’anno prossimo per loro, naturalmente”.
L’autrice va a raccogliere i suoi pezzi, come una spigolatrice gli ultimi grani rimasti sul terreno. E fatalmente tornano in scena la madre, Nives, figlia di contadini meschini e violenti, e il padre, avvocatino socialista, di buona famiglia religiosissima, uomo di gran cuore, ma già ammogliato. I genitori, veneziani, si incontrano e si amano: “Venne il giorno che Nives “cedette” e fu dolce, incredibilmente dolce. Una gita a Trieste, il giorno 7, camera 7 (magia?), passeggiata sul lungomare, caffè austroungarico, delicatezza di lui che non si vergognò di mettersi a piangere scoprendo che era vergine”. «Felix culpa!» nasce la scrittrice, “la bambina più amata del mondo”. Il legame puro ma clandestino, obbliga madre e figlia a trasferirsi a Padova: “Per calmare un po’ le acque, si pensò di allontanare le due intruse, la seduttrice e la bastardina”. Un’infanzia un po’ grigia, in un grande appartamento di sartine: “So che quella è l’età più crudele, quando i graffi si incidono come ferite perché la pelle, morbida e dolce, è più gentile”. L’inconfessata passione per il monumento al Gattamelata di Donatello: “ Un presagio? Un imprinting da anatrella di Lorenz? Sia come sia, quella bambina mantenne per tutta la vita un debole per i gatti, per il miele e per i capitani di (s)ventura”.
Il ritorno a Venezia in una oleografica famigliola felice per quanto illegittima. La complicità con il padre: “Lo amavo forse più di ogni altra persona al mondo”. Il sordo conflitto con la madre: “Comunissima inimicizia quella di madre e figlia, e reciproca, fatta di ammirazione, di antipatia, di invidia, di fiducia, di sospetto: un legame troppo stretto, come un cordone ombelicale che ti può anche strozzare”. Il contrasto, insidiosamente persecutorio, non si placherà mai; se non con la definitiva uscita di scena della genitrice, in tarda età. Una descrizione terrificante: “Se dio esiste, spero che avesse lo sguardo rivolto da un’altra parte, in quel momento”. Poi il ritorno a casa: “Cerco una vestaglia per scaldarmi e trovo la sua sottomano: è brutta ma è di lana, l’abbiamo sempre chiamata ridacchiando «lo spigato siberiano» come la giacca di Fantozzi. Me la infilo e non so ancora che con quel gesto magico comincia un lungo viaggio verso di lei, identica a lei.”
Il definitivo abbandono dell’amatissima città di origine, nella prima giovinezza, avviene dopo la vergognosa caduta. Per scongiurare lo scandalo borghese, il padre l’accompagna a Padova (la città torbida, del peccato: “Il gemello cattivo dove si va per acquisti proibiti, affarucci un po’ sporchi, amori clandestini”). «La ghe xé cascà», mormora alla faiseuse d’anges a cui si sono rivolti: “L’unica frase in dialetto che gli abbia mai sentito pronunciare”. Segue una notte di atroci dolori, al termine della quale viene espulso “piccolissimo, nerastro, imbrattato di sangue” il frutto della colpa: “Mio padre andò a buttare il mio bambolotto, nel canale. L’unica cattiva azione della sua vita”.
Canonicamente affascinata da uomini più grandi di lei, si era infatti lasciata sedurre da un sedicente giornalista che bazzicava l’ambiente del teatro universitario: “Era il ritratto (la parodia direi ora) dell’intellettuale di sinistra: aria di sufficienza, occhi socchiusi, occhiali tolti e messi con disinvolta frequenza, testa china leggermente ma costantemente da una parte, una spalla abbassata come a sostenere il peso di un grosso volume immaginario sostituito nella realtà soltanto dal giornale che teneva stretto sotto il braccio”. Ineluttabile l’offerta: “Aspettai il suo compleanno per regalarmi”.
Per arginare l’onta si impone il trasferimento nella grande metropoli, a finire gli studi. L’esilio dorato di Roma, finalmente libera, padrona di se stessa: “Conoscevo già la città e già l’amavo come un persona, con quell’ansia, con quel timore di perderla, di non riuscire a possederla interamente, che sono propri, appunto, dell’amore. Già desideravo quel giorno in cui la passione si tramuta in un calmo affetto, quel giorno in cui ne facessi talmente parte da lagnarmi, come tutti gli abitanti, delle sue magagne e delle sue scomodità”.
Sono questi i capitoli radiosi del racconto, che diventa d’un tratto romanzo di formazione, scoperta intellettuale, gioia della trasgressione, esplosione dei sensi: “Quei due supplì che mangiavo per pranzo mi sembravano il cibo più delizioso che avessi mai assaggiato”.
Una matita con gommino che cade sotto il tavolo della biblioteca, il gesto d’aiuto di una gentile sconosciuta, il brivido insospettato: “Senza rispondermi, mi sfiorò le labbra piano piano, con una dolcezza mai sentita prima”. Si staglia vivace sul fondale una compagna con cui condividere la bohème: “Scovai una stanza in un vicoletto vicino a Fontana di Trevi: vicino, non di faccia o di fianco, ma il fragore dell’acqua e gli spruzzi che riuscivo a intravederne spencolandomi dalla finestra mi bastavano e avanzavano”. Ritratti felliniani: “La padrona era, come accadeva spesso, un’ex prostituta di serie molto bassa; glielo si leggeva in faccia dal modo con cui si truccava: sembrava che si fosse passata una pennellata di bianco sul viso e gli occhi, che aveva azzurri, belli, venivano offuscati da un neretto fatto in casa”.
Altri molteplici avvenimenti trasformano Roma nell’irrinunciabile città di adozione: “Mi sono sposata, ho avuto una figlia, ho volantinato per l’aborto”. Una frase che racchiude tutti gli anni a venire, gli stessi che tanti di noi hanno vissuto quasi in carta copiativa: “L’arte della narrazione non ha bisogno di verosimiglianza”
Poi, all’improvviso, la terribile malattia: “Non sapevo cosa vuol dire SLA, non avendo mai partecipato alle riffe televisive, che commuovono per un giorno il cuore dei telespettatori e il cui ricavato finisce per sempre nei portafogli degli organizzatori”.
Il progressivo isolamento: “Mia grande, mia unica amica è La Gatta; tonda, timida tigre parlante mi ama di più da quando sono malata. Non, come gli umani, “nonostante” sia malata, ma “perché” sono malata e sto sempre in casa e molto a letto. Quando dormiamo, non so più se la sua zampa stia sulla mia mano o la mia mano sulla sua zampa. Quando ha da fare, corre via in fretta non prima di voltare la testa un momento per salutare e rassicurarmi: «Torno subito».”.
Non esiste conclusione per un’opera così prodigiosa, ma un finale sì, che sfilo di mano all’autrice:
“A proposito. Il senso che mi è più utile ora, anzi necessario, sfugge alla classica catalogazione. E’ una fortuna che l’abbia, tutto intero e magari un po’ cattivo. E’ il senso dell’umorismo”.