Se non se ne fosse andato a soli sessantaquattro anni, il 16 marzo 2002, oggi Carmelo Bene avrebbe compiuto ottant’anni.
Ci manca questo istrione bohémien che seppe prendere a calci tutto con rara intelligenza e saggezza, svecchiando il panorama teatrale italiano e conferendogli una freschezza, un entusiasmo e una ventata di novità di cui, sinceramente, si avvertiva il bisogno.
Ci manca la sua capacità di tenere la scena, certo, ma anche la sua follia, la sua inventiva, la sua innata abilità nel suscitare polemiche, il suo fastidio per l’ordine costituito, per i canoni prestabiliti, per coloro che non intendevano la potenza intrinseca dell’arte e per i costanti tentativi, da parte di una critica spesso lontana anni luce dall’effettiva comprensione della medesima, di classificare, incasellare e, di fatto, imprigionare gli artisti all’interno dei propri schemi e delle proprie vetuste categorie.
Non a caso, Bene suscitò spesso scandalo, scatenò una miriade di controversie, venne criticato, contestato e attaccato con una furia inaudita, salvo poi, come spesso accade, essere rivalutato dopo la morte. Abbiamo scritto volutamente rivalutato e non compreso perché, di sicuro, se c’è una cosa che egli non avrebbe mai accettato sarebbe stata la comprensione, ossia l’equivalente, secondo la sua visione del mondo, dell’asservimento al pensiero corrente, della resa, della deposizione di quell’ascia di guerra letteraria che, al contrario, non si stancò mai di brandire e di tenere ben vigile, così da allontanare e far indignare le schiere di ciarlatani che scambiavano per volgarità la sua grandezza.
Bene godeva nel non essere capito, amava dar fastidio e quasi si inebriava quando qualche personaggio che disprezzava profondamente tentava di metterlo alla berlina, finendo con il rendere manifesta la propria malcelata invidia e la propria palese inferiorità.
Non saremo, dunque, noi a infliggergli la sofferenza dell’esaltazione postuma né, tanto meno, a provare a definirlo o a lasciarci andare a paragoni che lo avrebbero senz’altro infastidito.
La sua arte era un crogiolo di stili, da buon allievo di numerosi maestri dotato della necessaria umiltà per acquisire qualcosa da ciascuno di essi, senza mai tuttavia perdere di vista la necessità di essere se stesso.
Da qui la sua unicità, la sua solitudine, il suo essere una stecca nel coro ed un solista sfrenato e senza pentimenti. Da qui la sua meraviglia che pochi, per fortuna, hanno compreso o si sforzeranno di comprendere.
P.S. Ricorre quest’anno il centocinquantesimo anniversario della scomparsa di Charles Baudelaire: lo ricordiamo con piacere, in quanto sappiamo che a Bene non darà alcun fastidio vederlo annoverato fra i suoi maestri e le sue fonti d’ispirazione.