Il solo domandarsi se i migranti vadano aiutati a casa loro o qui da noi suggerisce il sospetto che chi pone questo dilemma e chi vi risponde sostenendo che vadano aiutati a casa loro in effetti hanno in mente di non aiutarli né da noi, né da loro . Cioè di non aiutarli per niente e di fare in modo che non lascino i loro paesi o comunque non arrivino nel nostro.
Il sospetto è fondato. Per più motivi.
Anzitutto chi fugge o vuole fuggire da condizioni di vita invivibili, qualunque ne sia la causa – una guerra, un regime politico dispotico o tirannico, una miseria senza scampo – ha bisogno di un aiuto immediato e sappiamo tutti che per ricostruire condizioni di vita vivibili in paesi che non le hanno sarebbe impresa assai improba i cui effetti – qualora riuscisse – si manifesterebbero solo nel medio o, più probabilmente, nel lungo tempo. Ma chi prova a sfuggire alla morte non può aspettare.
Ciò premesso, interroghiamoci sui soggetti che dovrebbero aiutarli.
Nel caso delle guerre, chi e come potrebbe aiutarli a casa loro, facendole cessare? I paesi occidentali, quelli cosiddetti ad economia avanzata e con regimi democratici? Ma se sono stati e sono tuttora proprio loro a fomentare o ad aver fomentato direttamente o indirettamente le guerre che si combattono in Africa, guarda caso, proprio con armi prodotte e vendute dall’Occidente! Per di più aiutare a casa loro chi fugge dalle guerre richiederebbe anzitutto di smettere di vendere armi ai loro paesi; di conseguenza si dovrebbe anche smettere di produrle o per lo meno ridurne sensibilmente la produzione, perché non ha senso produrre qualcosa e chiudere i relativi mercati di vendita. Non è verosimile quindi che siano i paesi occidentali a far cessare le guerre in Africa: dovrebbero andare contro propri, cospicui interessi. .
Poniamo il caso dei paesi con regimi tirannici. Vogliamo ripercorrere la storia di come si sono formati i loro regimi e domandarci a chi giovi che restino al potere? Si dice che tali regimi siano anche corrotti. Ma i giuristi definiscono la corruzione un reato bilaterale a concorso necessario. Ovvero: se c’è un corrotto deve necessariamente esserci anche un corruttore. Chi sarà mai il corruttore? Dopo aver risposto a queste domande valutiamo se sia verosimile che fra i paesi occidentali ci sia qualcuno in grado e che voglia darsi carico di porre in crisi i regimi tirannici e corrotti dalle cui vessazioni i/le profughi/e africani/e intendono sfuggire.
Consideriamo infine il caso dei paesi in cui imperversa la miseria. Certo la miseria ha a che vedere con le guerre e può essere anche frutto del malgoverno di regimi che non si curano del popolo ma degli interessi delle oligarchie dominanti. Ma è fuor di dubbio che può avere anche altre cause. Un economista svedese del 900, Gunnar Myrdal, noto per i suoi studi sulle interdipendenze dei fenomeni economici e per avere analizzato i “nessi di causalità circolare cumulativa” che li presiedono, ha posto in luce come ad ogni area economica in sviluppo ve ne sia connessa un’altra che con le proprie risorse sostiene ed alimenta l’economia della prima, Ha anche indicato a titolo di esempio qualcuna di queste connessioni. A conclusioni non diverse si può giungere analizzando quella che altri economisti hanno chiamato la “divisione internazionale del lavoro”, perché – anche se non si dice mai – pure in economia “nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma”, sicché non è che la ricchezza si crei dal nulla, ma la si mette insieme attraverso processi di trasformazione e trasferimenti di risorse. Veniamo quindi all’Africa.
Continente che aveva ed ha tuttora grandissime ricchezze, l’Africa è stata e continua ad essere area di supporto e di alimentazione dello sviluppo o comunque delle economie prospere di molti dei paesi “avanzati”. Il drenaggio della sua ricchezza continua e così il conseguente suo impoverimento ancora oggi. Ne è riprova quanto qualche giorno fa è stato spiegato nella trasmissione di Rai 3 <Tutta la città ne parla>: i flussi di ricchezza in uscita dall’Africa hanno un volume triplo dei flussi in entrata. Tradotto in soldoni: ad ogni dollaro che entra dall’esterno nelle economie africane fanno riscontro 3 dollari che ne vengono portati fuori. Ai profani può sembrare incredibile, ma è proprio questo che ha spiegato Gunnar Myrdal.[1] Del resto cos’altro è stato il colonialismo e cosa è il neocolonialismo se non una modalità – molto armata nel primo caso e meno armata nel secondo – per depredare alcuni paesi a vantaggio di quelli che con incredibile cinismo si attribuirono la denominazione di Madre Patria?
Insomma per por fine alle cause dell’impoverimento e della conseguente miseria dei paesi africani non sono adatti i paesi europei ed in genere quelli occidentali. Per farlo sarebbe necessaria una trasformazione radicale dell’economia del mondo e l’adozione da parte dei paesi che si definiscono avanzati di un modello economico diverso da quello vigente. Anche questa eventualità è inverosimile
Dunque non c’è verso di aiutare gli immigrati a casa loro; o li aiutiamo a casa nostra o non c’è che blindare l’Europa per impedir loro di raggiungerla.
Sembra che sia questa la strada che l’Europa abbia intrapreso e che anche l’Italia stia imboccando.
E’ una strada, però, che ha delle conseguenze gravi.
L’Europa e in genere l’Occidente non sono solo colonialismo e neocolonialismo; non costituiscono solo l’area che ha depredato il resto del mondo per il proprio sviluppo. Sono anche le eredi della civiltà greca e di quella romana; hanno a loro volta generata un civiltà ed una cultura di altissimo livello, impregnate di valori che, per limitarci ai piani politico e giuridico, hanno generato lo Stato di Diritto e la democrazia, e sono alla base dell’ordinamento dei diritti umani.
Proseguire per quella strada significherebbe rinnegare il proprio patrimonio di civiltà, autocondannarsi a regredire ad una civiltà inferiore. L’Europa e con essa l’Italia non hanno dunque alternative. Se non vogliono tradirsi,abiurare il proprio passato, rinunciare ad un futuro vendendo la primogenitura per meno di un piatto di lenticchie, i migranti devono aiutarli a casa propria.
Anche noi Italiani dobbiamo farlo. E’ una sfida, perché aiutarli significa riconoscere loro, e in concreto, il diritto alla casa, al lavoro, alla salute, alla istruzione, diritti che in pratica non sono riconosciuti neppure a molti italiani ed italiane. Accoglierli per lasciarli senza casa e senza lavoro ad allargare l’area dell’emarginazione e dell’esclusione sociale sarebbe una follia priva di senso e sarebbe addirittura pericoloso. Allora non abbiamo alternative, non possiamo più indulgere alla rassegnazione e all’inerzia continuando ad accettare che gli emarginati e gli esclusi continuino ad esserlo, come se non vi fosse rimedio, come se fosse una fatalità alla quale non si possa sfuggire.
E’ vero che all’interno del modello economico imperante la soluzione non c’è. E dunque cerchiamola altrove. Non è che caduta alla prova dei fatti dell ’illusione, da cui solo in pochi non ci facemmo sedurre, che la globalizzazione avrebbe inaugurato una nuova era di grande prosperità per tutti, non vi siano alternative. I sistemi economici sono costruzioni storiche, il cui funzionamento non risponde a leggi naturali immodificabili. Se la soluzione non si trova nel modello economico imperante cerchiamola in uno che alla centralità del profitto sostituisca la centralità del benessere diffuso. E’ possibile. Non si tratta di un’utopia ma di una possibilità reale.
Non occorre pensare a impossibili metamorfosi economiche a livello planetario, basta mettere in campo “nuove forme di organizzazione economico-sociale”, come recita un progetto del 2013 del Centro Studi Federico Caffè,cioè tipi di imprese coerenti con l’obiettivo di generare un benessere diffuso.
Il modello di imprese di questo genere non è da inventare; imprese di questo tipo esistono già. Sono quelle denominate sociali e quelle che secondo alcuni sociologi ed economisti costituiscono il “capitalismo molecolare” e a detta di altri sono tutt’altro che capitalistiche. Sono ancora le imprese che fanno capo a quella che Detragiache ha chiamato imprenditorialità popolare. Si tratta insomma di un insieme variegato e numeroso di organizzazioni economico-sociali che non riesce a “fare sistema” e resta frammentato solo perché mancano consapevoli ed adeguate politiche di supporto. Va puntualizzato che non sono organismi di beneficenza, ma imprese a tutti gli effetti, che stanno sul mercato come le altre; sono solo basate su valori diversi. Di esse non si parla; però a dimostrazione che esistono ogni tanto balza purtroppo agli onori della cronaca qualche strano imprenditore che, disperato per non essere più in grado di pagare gli stipendi, si suicida.
Se da un lato bisognerebbe fare pressioni perché una politica a sostegno di questo settore economico venisse finalmente varata, dall’altro non è detto che per affrontare i problemi dell’emarginazione e dell’ esclusione sociale, non in termini di assistenza bensì economici, bisogna necessariamente attendere i tempi della politica. Il sistema delle mutue e delle cooperative nacque senza attenderli. Si può fare oggi altrettanto
Nel 1983, agli albori della Globalizzazione era già chiaro, almeno per alcuni, che il sistema delle imprese “normali” non avrebbe più assorbito maestranze nella stessa misura del passato e si pensò che il movimento dei lavoratori potesse dotarsi di propri strumenti di intervento per evitare l’insorgere di una grave crisi occupazionale. Un gruppo di lavoro appositamente costituito nell’ambito del Dipartimento Economico della CGIL elaborò un progetto per la promozione di imprese che fossero fortemente legate alle potenzialità ed ai bisogni del singoli territori e mirassero a fornire occasioni di lavoro buono e dignitoso operando a “copertura dei costi di produzione”, come si dice con linguaggio tecnico per indicare che se non hanno il profitto come obiettivo prioritario non hanno però alcuna propensione alle perdite.
Il progetto venne presentato alla Segreteria Confederale e fu oggetto di dibattito all’interno della organizzazione. Forse era troppo in anticipo sui tempi. Le ideologie erano al tramonto ma alcuni dogmi resistevano imperterriti.
Oggi i tempi sono cambiati,è in aumento il numero di chi si interroga sul che fare per fronteggiare un disagio sociale (mi scuso per l’eufemismo) sempre più crescente e preoccupante. Forse sono maturate le condizioni per un’assunzione di responsabilità da parte di più soggetti che consenta di passare dai progetti e dalle riflessioni alle sperimentazioni ed alle realizzazioni concrete.
La necessità di provvedere anche all’accoglienza dei migranti può esercitare una spinta determinante in questa direzione e così potrebbe darsi il caso, non unico nella storia, che a provocare un salto di civiltà per l’intero paese siano proprio i più ultimi degli ultimi.
[1] Chi si occupa di questi fenomeni sa bene che si è verificato altrettanto in Italia tra il Mezzogiorno ed il Centro-Nord, non solo all’epoca dell’unificazione del paese: uno studio della Banca d’Italia attesta che persino ai tempi della Cassa per il Mezzogiorno o subito dopo il totale dei flussi finanziari in uscita dalle regioni meridionali verso quelle centro-settenrionali superava quello dei flussi in entrata.