“Non cambierete la nostra vita”, s’usa dire dopo ogni attentato, ogni strage terroristica. Come “non cambierete la nostra vita”? La cambiano, eccome. Lo sa bene chiunque prende un aereo: controlli, perquisizioni, togli la cintura dei pantaloni, fuori il tablet, radiografia dei passaporti…Guai se sei nato in qualche ex colonia italiana come la Libia; puntuale la domanda: “Perché è nato a Tripoli?”. Sorridi o lo mandi a quel paese?
La cambiano la nostra vita: siam zeppi di normative che ti frugano per ogni dove, monitorano i tuoi movimenti di banca, attento a non avere un filo di barba che non sia quella “regolamentare”; e anche tu, che una volta ti chiedevi: ma con quei caffettani si sta davvero più comodi?, ora quando ne vedi uno, pensi: “Chissà…”; poi, magari ti vergogni, ma intanto l’hai pensato, hanno creato le condizioni per fartelo pensare. Chi prende un treno per Bellinzona Svizzera, ci faccia caso: al confine, i poliziotti al bianco non degnano uno sguardo; a chi ha la pelle scura, anche un filo abbronzata, si chiedono i documenti, e dove vai, come mai, perché vai… La cambiano eccome, la nostra vita: è normale vedere in ogni luogo che ha l’aria di “obiettivo sensibile” ragazzi in assetto di guerra con in braccio armi automatiche come un tempo se ne vedevano nei film di “Rambo” o in Irak? Cambia la vita, se si può essere sospettati di terrorismo se affitti un furgone, e se si installano jersey per strade e piazze. E ci si limita agli episodi più “visibili”. Ci sono poi le misure più radicali: quelle occulte, che è bene ci siano senza percepirle. La vita è cambiata, cambia, cambierà.
“Noi non abbiamo paura”, s’usa dire dopo ogni attentato, ogni strage terroristica. Scusate: perché non devo avere paura? Perché devo negare di averne per i miei cari, per me? Perché si deve negare che si teme di essere uccisi, vittime di questo fanatismo che ha sì un metodo, pur se colpisce in modo cieco? Giusto sforzarsi di “governarla”, la paura; giusto che si voglia evitare di cadere nelle “trappole” di questi tagliagole che vorrebbero renderci come loro; che si voglia conservare la soglia minima della decenza giuridica, delle regole salutari dello stato di diritto. Ma riconoscere di avere paura non è segno di debolezza; al contrario, diventa una forza: è consapevolezza del pericolo, dei rischi; dei nostri limiti. La paura non negata consente di vincerla, e individuare antidoti e contravveleni. Ma la paura è un diritto, a volte perfino un dovere.
“Occorre l’intelligence europea”, s’usa dire dopo ogni attentato, ogni strage terroristica. Una parola d’ordine. Cosa si intende con “intelligence europea”? Evidentemente un lavoro di paziente, meticolosa, oscura raccolta dati; informazioni da reperire sul “campo”; significa una rete di confidenti e interlocutori che operano su un viscido terreno di confine, terreni infidi e pericolosi, e certamente non lo fanno per amor di patria o di gloria. Occorre quindi essere disposti a scendere a compromessi anche onerosi, a do ut des con personaggi di più che dubbia moralità; del resto, lo sa ogni buon investigatore: se si vuole sapere cosa accade nei bassifondi dell’umanità, se si vuole assicurare un’efficace azione di prevenzione e contrasto, quegli ambienti occorre frequentarli, “viverli”. E’ stato senz’altro brutale l’ammiraglio Gianfranco Battelli, ex direttore del SISMI, quando anni fa disse che gli sembrava “fin troppo ovvio che i servizi debbono poter fare cose illegali”. Di certo bisogna sapere che i “servizi” non si comportano come in un pranzo di gala.
Questi manovali del terrore sono docili strumenti nelle mani di cinici burattinai che perseguono interessi molto terreni e concreti; altro che il Paradiso-latte-miele, e spose vergini a disposizione. Ci sono articolate filiere che procurano denaro, armi, tecnologia, e garantiscono addestramento militare e ideologico. I “servizi” già oggi agiscono come giganteschi aspirapolveri: “bevono” una quantità di dati grezzi, e alla fine se ne ubriacano: non sanno come gestirli. Dei terroristi si sa tutto sempre cinque minuti dopo, mai cinque minuti prima. L’osservazione è di Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale sotto la presidenza di Jimmy Carter, all’indomani degli attentati alle Twin Towers e al Pentagono: “Il 10 settembre 2001 non sapevamo nulla di questi attentatori. Il 12 settembre tutto”. Traduzione: le informazioni c’erano. Il problema era saperle “leggere”. Raccogliere una mole di dati e di “notizie” e non saperle usare per tempo: è il problema di tutte le intelligence. Le cose non sembrano essere cambiate molto. Vien da chiedersi, per esempio, cosa se ne fa mai la National Agency Security americana della possibilità (e della capacità) di poter “pescare” nel cyberspazio l’equivalente di almeno 600 milioni di file cabinets ogni giorno, se poi i dati non li si sa connettere e mettere a frutto; e si parla della sola NSA…
E l’invocata intelligence europea? A dire il vero, qualcosa c’è: dopo gli attentati del 2005 si costituisce il coordinamento antiterrorismo; quattro anni dopo il cosiddetto INTCEN: per di raccogliere informazioni dalle varie intelligence nazionali. Organismi molto riservati: nessuno sente mai parlare di loro. Ma ci sono, a giudicare dalla quantità di denaro e risorse che incamerano.
L’attuale capo della polizia Franco Gabrielli, quando era ancora prefetto di Roma, ha messo il dito sulla piaga. Interpellato sull’ipotesi di una intelligence comune a livello europeo, si chiede “in una realtà geopolitica come quella dell’Europa, dove si ha difficoltà a mettere d’accordo gli attori su politiche migratorie di cortissimo respiro, se ci siano le condizioni affinché gli stati si spoglino di uno dei cardini della loro sovranità come l’intelligence, che è la più plastica rappresentazione della stessa sovranità degli Stati. Lo scambio di informazioni e la cooperazione stanno nelle cose, ma parlare di una intelligence comune mi sembra una sorta di contraddizione in termini: prima si fa l’Europa, non intesa solo come sommatoria di Stati, e poi si può immaginare un’intelligence complessiva”.
In effetti, è questo vuoto d’azione che oggi si paga, e che costituisce la vera emergenza cui occorre trovare urgente risposta e soluzione. Però, vuoi mettere, dire: “occorre un’intelligence europea”?