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Sogni, canzoni e “rivoluzioni”

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«Però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia…». Francesco Guccini cantava questa lampante verità oltre quarant’anni fa, per l’esattezza nel ’76, nella celebre invettiva “L’avvelenata” (dall’album “Via Paolo Fabbri 43”). Vabbe, in effetti (quasi) nessuno è stato così sciocco da pensare che le rivoluzioni si potessero fare con le canzoni. Però c’è sicuramente stato un tempo, soprattutto a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, nel quale la musica, il rock, le canzoni sono sembrate a molti uno strumento, un grimaldello, un cavallo di troia attraverso il quale cambiare il mondo. Ma oggi che, col senno di poi, abbiamo la prova provata che l’impresa era ardua assai, c’è chi giustamente si domanda – con l’approccio ormai dello storico – che legame c’è stato, nella seconda metà del secolo scorso, fra azione politica, filosofia libertaria e musica rock. Quali le relazioni fra industria culturale e poeti della Beat generation, da Allen Ginsberg a Jack Kerouac a tutti gli altri? Come mettere assieme, in definitiva, Beatles e guerra nel Vietnam, Bob Dylan e battaglie per i diritti civili, Doors e movimento hippie, Pink Floyd e studenti in rivolta a Berkeley? Per tentare di tracciare il classico filo rosso fra Woodstock e Sessantotto, Pantere nere e Che Guevara, Marcuse e Jean-Paul Sartre, droghe e Pier Paolo Pasolini… Federico Ballanti ed Ernesto Assante, l’uno giornalista e filosofo esperto di comunicazione culturale, l’altro critico musicale di “Repubblica” (ruolo che divide da anni con Gino Castaldo, con cui forma anche la fortunata coppia di “Webnotte”), tentano di offrire delle risposte a cotanti interrogativi in “Rivoluzioni”, sottotitolo “L’insurrezione poetica e la rivolta politica. Controcultura (1955-1980)”, pubblicato da Arcana edizioni (pagg. 382, euro 22).

Da segnalare che lo spunto per il saggio è giunto agli autori dalle domande e dalle sollecitazioni degli studenti del corso di Scienze della comunicazione da loro tenuto all’Università di Roma alcuni anni fa. Quella che emerge dal lavoro è una vera e propria mappa culturale, che ha l’ambizione di rappresentare un’epoca ma anche una generazione. Quella di chi è stato ragazzo negli anni Sessanta e Settanta, da questa e dall’altra parte dell’Atlantico. Si comincia dal ’55, quando Elvis debutta incidendo “Baby let’s play house” per l’etichetta Sun di Sam Phillips. Intanto, Allen Ginsberg scrive “Howl” e Jack Kerouac è impegnato nell’ennesima riscrittura di “On the road”: una poesia e un romanzo che hanno cambiato la vita di milioni di persone. Un quarto di secolo dopo, superati il Sessantotto e il Settantasette con tutto quello che hanno significato, il 1980 è considerato l’inizio della normalizzazione, con gli anni di Reagan dall’altra parte dell’oceano e della Thatcher in Gran Bretagna e dunque nella vecchia Europa. C’è anche una data precisa, l’8 dicembre ’80, che simboleggia la fine di tutto, o perlomeno della controcultura: quel giorno, a New York, davanti al Dakota Palace affacciato su Central Park, viene ucciso John Lennon.

Quali sono le tradizioni e le innovazioni – si chiedono gli autori – che costituiscono il pensiero contemporaneo, da dove arrivano le modalità di lettura e di comprensione del reale che sono proprie dell’oggi? E quali sono le radici del presente, da quale ideale discende l’attuale reale, chi ha posto le premesse del nostro mondo? Ancora, quali sono le correnti che hanno modificato la nostra percezione del reale e fin dove possiamo risalire? Uno studio al tempo stesso culturale e giornalistico, in bilico fra vademecum musicale e riflessione sociale, nel quale si cerca di rimontare il corso del tempo, riannodare qualche legame, riconoscere le origini. Una narrazione che si spinge alle radici del dissenso, intreccia rivolta politica e insurrezione poetica, negli anni di quella controcultura e di quelle suggestioni musicali che avevano l’ambizione di cambiare il mondo. E in parte in fondo lo ha cambiato, prima di venir fagocitata dal business.

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