Era la mattina dell’8 agosto del 1956. La tragedia avvenne in 14 minuti. A 715 metri di profondità. In un corridoio del Pozzo numero 1 della miniera di Marcinelle, in Belgio. Alla base di tutto un incendio: una scintilla prodotta dalle ruote di un carrello infiammò una vasta macchia d’olio fuoriuscita dal sistema di trasporto carbone. Le vittime furono 262. I superstiti 13, dei quali 6 feriti gravi. Per il recupero dei cadaveri servirono settimane, alla fine mesi. L’ultimo cadavere fu ritrovato in una galleria, 16 mesi dopo l’incidente, era dicembre 1957.
Nella lista: 136 italiani, 95 belgi e poi a seguire 8 polacchi, quindi una decina di altre nazionalità. Ma i numeri per queste non rientravano nelle dita di una mano. Per tutti in Europa quello fu il disastro di Marcinelle.
La presenza degli italiani in Belgio e più ancora dei minatori italiani è un’epopea che oggi vive sul filo della memoria, tenuta viva dalle famiglie che ebbero a vivere quelle non facili condizioni di vita. Liegi, La Loiviere, Charleroi, Hassel, Moll, Genk, le località di destinazione, che ricorrevano nei racconti degli emigrati italiani.
Oggi, grazie ad un lavoro dell’associazionismo di emigrazione, quella memoria di lavoro e sofferenza ha ottenuto non solo dignità ma anche giusto riconoscimento.
Ciò che rimane oggi di quelle comunità, in particolare della comunità italiana a Genk, cittadina non distante da Liegi, è raccontata nel ciclo “Storie e Persone” da Sergio Canelles.
A partire dalla fine degli anni 80 in poi l’intera ex area mineraria ha poi vissuto profondi cambiamenti, a partire dalla massiccia deindustrializzazione, e sino all’attuale trasformazione che ne ha fatto un polo di movimentazione merci per l’Europa del Nord.
Le storie dei minatori italiani, emigranti all’estero, sono tante, ma ce n’è una poco conosciuta che vale la pena di essere raccontata: quella dei “carusi gialli di zolfo”. Un’altra storia di miniera, un’altra storia di fatica e di lavoro massacrante.
A partire dagli anni ’50 l’Italia dei trasporti era segnata dalla tratta ferroviaria chiamata “La linea del sole”. Il percorso univa la Sicilia a Milano e da lì, dopo una breve sosta ripartivano gli emigranti italiani destinati in Svizzera, Germania, Olanda e Belgio. Dopo però essersi sottoposti ad accurata visita medica, richiesta dalle autorità sanitarie d’oltre confine.
Accadeva spesso che in quella sede venissero riscontrate condizioni sanitarie non compatibili con le richieste presenti, o imposte, nei trattati d’emigrazione stipulati tra l’Italia e i Paesi del Nord Europa.
Di particolare accuratezza erano le visite a quanti avevano contratti per lavori nelle miniere. Dalla Sicilia ne partirono in migliaia, anche perché l’isola contava un elevato numero di miniere di zolfo (ormai chiuse da decenni) e dunque maestranze con esperienza.
“Carusi” era il nome dato ai giovanissimi, spesso appena adolescenti, che andavano nelle miniere di zolfo, a quei tempi private.
Un’altra storia di miniera, di lavoro durissimo e di morti nelle gallerie. Una memoria, quella mineraria, che in Italia si ritrova in Sardegna, nell’iglesiente, altra zona , ma lì di carbone e ferro, con forti radici di quello che è stato un capitolo sottovalutato della storia nazionale.
Un racconto che con gli anni si arricchisce di valore perché di quei Carusi (ragazzini) ne sono rimasti davvero pochi.
Il Capo dello Stato Sergio Mattarella ricorda “Generazioni di italiani che hanno vissuto la gravosa esperienza dell’emigrazione, e affrontato condizioni di lavoro non facili”. Raffaella Frullone per inBlu Notizie – intervista Paolo Lambruschi, giornalista di Avvenire