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Elvis Presley e Raoul Casadei: la musica come una ragione di vita

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Quarant’anni dalla scomparsa di Elvis Presley mentre Raoul Casadei ne compie ottanta e questo Ferragosto si tinge di felicità, di poesia, d’incanto.
Ad accomunarli la concezione della musica come una ragione di vita, della cultura come una valorizzazione di se stessi e della società nel suo insieme e quel pizzico di follia tipico degli artisti che li ha resi entrambi grandi, celebri e apprezzati da masse sconfinate di persone, fino a giungere, nel caso di Elvis, ad un livello di isteria tale che, probabilmente, ha avuto il suo ruolo nel declino e nel cedimento psicologico del cantante, con tutto ciò che esso ha comportato.

Tuttavia, accantonando gli aspetti negativi, i cedimenti e le brutture che spesso, purtroppo, caratterizzano la vita di personaggi così in vista e sottoposti per questo a pressioni per noi difficili anche solo da immaginare, possiamo dire che la magia di Elvis è stata la sua capacità di coniugare country e blues, l’America bianca e l America nera, l’America puritana e quella dei ghetti, il massimo del razzismo e il desiderio di emancipazione, subendo per questo accuse, boicottaggi e vere e proprie campagne d’odio da parte delle frange più grette e retrograde della società.
Un contemporaneo del reverendo King e di Malcom X, un precursore di tendenze musicali e relazioni sociali che si sarebbero affermate solo alcuni decenni dopo, un visionario e un genio, la cui inarrestabile caduta non può oscurare ciò che di immenso ci ha regalato e continua a regalarci sotto forma di emozioni, passione civile e autentico entusiasmo di popolo.

Allo stesso modo, il non meno folle ma comunque assai più misurato Casadei, cantore della Romagna verace e profonda, godereccia e desiderosa di amare la vita fino all’ultima stilla, ha mantenuto tuttora la sua inossidabile vivacità, il suo estro creativo, la sua prontezza di spirito e la sua generosità d’animo, a dimostrazione di quanto ci sia bisogno, oggi più che mai, di figure come la sua, di persone in grado di ingannare l’anagrafe e di produrre una coraggiosa ribellione morale a questa stagione di degrado e di abbrutimento collettivo.
Una settimana di Ferragosto, dunque, all’insegna dell’allegria, del benessere interiore, di un elogio mai eccessivo della fragilità umana e dell’esaltazione di ciò per cui, in fondo, vale la pena vivere e ritrovarsi insieme almeno qualche giorno all’anno.
Perché senza si vivrebbe lo stesso, per carità, anche ai tempi di Trump, dell’incertezza e della solitudine o dello sballo (le due cose, per quanto possa sembrare strano, sono sinonimi) elevati a virtù, ma siete sicuri che avrebbe ancora un senso?


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