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Cinque anni di solitudine

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Cinque anni fa, a pochi giorni dalla scomparsa del suo carissimo amico e compagno di lotta Filippo Bettini, ci lasciò Renato Nicolini. Ricordarlo è tutt’altro che un esercizio di retorica funebre, quella secondo cui i morti sono tutti buoni ed eroi. No, il tratteggio –oggi- della poliedrica personalità dell’Assessore alla cultura per antonomasia ( e lo fu dal 1976 al 1985 a Roma, dal 1994 al 1997 a Napoli) assume un valore particolare. Ciò che frettolosamente venne definito l’”effimero”, per connotare la creatività fuori dagli schemi dell’Estate romana, va oggi riconsiderato in una chiave di vera e propria politica culturale. Perché quelle sequenze di eventi, che facevano arricciare il naso ai puristi della cultura “colta” o agli esegeti delle strutture permanenti, erano sequenze di un universo polimediale in grado di intrecciare i desideri del consumo con la sperimentazione produttiva. Avanguardia e cultura di massa insieme. “Alto” e “Basso” in grado di dialogare e di incrociarsi. Tra l’altro, mai Nicolini immaginò di contrapporre le iniziative di maggiore visibilità con il presidio delle periferie. Allora, infatti, si gettarono le basi –ad esempio- per l’impegno, cui diede seguito con intelligenza e tenacia il successore Gianni Borgna, sui teatri di cintura. Per non dire del resto, che ricordiamo con rabbia, vista l’amara desolazione di questi tempi. Molto si trova nel bel volume di Federica Fava (2016) su “L’Estate romana”, seguito al testo di Nicolini con la prefazione di Jack Lang.  E finalmente tanti materiali sono raccolti nell’Archivio storico capitolino, che contribuisce a ricostruire la memoria di una stagione fondamentale, cui si dovrebbero ispirare gli attuali colleghi del celebre predecessore: un vero e proprio caposcuola, un intellettuale rabdomantico ed erudito. Nelle cose dell’architettura, e non solo. Docente presso l’università di Reggio Calabria divenne un riferimento amato per generazioni di giovani non assuefatti all’idea che il mezzogiorno dovesse rimanere un luogo minore. Così come avvenne per i suoi insegnamenti tenuti alla Sapienza e a Roma tre. Una vita intensissima, transitata dal Palaexpo di Roma al Festival di Spoleto allo Stabile aquilano. Parallelamente correva l’esperienza politica, iniziata negli anni del Pci alla sezione Campo Marzio nel periodo di formazione in cui avvennero gli incontri con Walter Veltroni, Goffredo Bettini, Gianni Borgna, fino a che Giulio Carlo Argan coinvolse il brillante attivista nella prima giunta rossa della capitale. Così iniziò l’avventura, proseguita con Luigi Petroselli e Ugo Vetere. Parlamentare, dirigente, popolarissimo, non ebbe –però- il riconoscimento del rango di dirigente di prima grandezza, che pure avrebbe meritato. Il rapporto complesso con il partito rimase un cruccio, fino alla fine.

Proprio la figura di Nicolini ci interpella, ora come ieri, su quale sia il rapporto tra un intellettuale impegnato ma non conformista, e la politica. Le sofferenze di allora ci illuminano su qualcosa che si stava rompendo, fino al deserto che viviamo. Quell’esperienza va riletta come vicenda emblematica, prefigurante. Da cui, se si vuole ripartire, non si può prescindere. Anche se si volge lo sguardo ai tormenti d’oggi, @dentro i quali si vede come in un grandangolo la cesura con un vasto universo di lavoro culturale, che preme inascoltato alle porte del potere. E’ il mondo dei precari, degli artisti senza tutele, dei disoccupati intellettuali, che Nicolini aveva preso per mano, facendoli sognare. Per un attimo.


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