Immagini concise e connotate dalla velocità rappresentano con efficacia il crinale di un mondo in cambiamento, o in dissoluzione destinata a rigenerarsi in altra forma, come avviene in modo ciclico dalla fine del XVI° secolo. Lo scardinamento di un ordine – sociale, politico, individuale – comporta, in particolare nella transizione da ancien régime a novità apparente, la perdita delle coordinate interiori, collettive e personali.
Nell’imminenza del crollo del muro di Berlino, la neve copre, e nello stesso tempo fa risaltare, la fatiscenza urbana originata da 35 anni di incuria arrogante e ottusa. Un grigio verdognolo muffoso ristagna nei corridoi delle stazioni, ancora sorvegliate ossessivamente dalla Stasi, mentre le rampe di scale e gli appartamenti diventano labirinti ciechi, disadorni, insidiosi, da racconto kafkiano, e la polizia politica massacra giovani dissidenti in capannoni industriali dismessi, nei quali la luce naturale, biancastra, definisce linee di un nitore duro e metallico che non concede vie di fuga, neppure mentali.
Accanto ai ruderi della DDR già si innalzano nuove costruzioni di moderna concezione ultraoccidentale. Assumono un ruolo fondamentale nel film le luci al neon, in grado di modificare la percezione delle cose creando sfumature eccessive e acide che lasciano spazio alle ombre underground dei primi locali trasgressivi, antitetici rispetto al minculpop dominante, muniti di spazi dove potersi appartare per incontri (o scontri) sessuali repentini e rapaci. Luci che generano quasi un corpo ulteriore, o rivestimento metamorfico, capace di aderire e sottolineare vicende e caratteri, così come la trascinante colonna sonora che riporta in vita le atmosfere di un intero decennio: Depeche Mode, David Bowie, New Order, Queen, Falco, Duran Duran.
I movimenti giovanili, animati dallo spirito anticonformista punk, premono sempre più forte contro i bunker metaforici e reali della Repubblica Democratica, organizzando proteste, manifestazioni e fughe verso Berlino Ovest. Occasionalmente, collaborano con i servizi segreti occidentali. E Atomic Blonde è proprio una spy story, adrenalinica e lisergica, ispirata alla graphic novel “The Coldest City”, il cui plot ricorda i romanzi di Le Carré. O, per via del disincanto e dell’assenza di speranza, per la consapevolezza di trovarsi al di là del confine estremo del canone di umanità, certi racconti coloniali di Maugham o Conrad.
Una lista di nomi di agenti NATO che collaborano con il Kgb è contesa da MI6, CIA e DGSE, mentre l’intelligence russa cerca di intercettarla per neutralizzarne gli effetti. Come nelle spy story classiche le soglie appaiono evanescenti, nessuno conosce esattamente il proprio ruolo e la propria fazione, né dove militi o che finalità abbiano l’avversario o il presunto alleato. Persino l’aspetto esteriore è funzionale alla strategia adottata e allo scopo da raggiungere. Ci si riveste di un’aura eroica, invece, a un certo punto della vita, nella Terra di Nessuno di Berlino Est, si scopre di essere collaboratori del demonio. Intanto i contorni si sfumano, ciò che si presume ormai noto si fa, per un effetto di straniamento, lontano, mostruoso, incomprensibile, portando la cognizione di sé alla deriva, verso un’esistenza basata sul senso di allarme, sulla diffidenza, sulla percezione animale del pericolo, perché il mondo è fondato sui segreti, allora come oggi. Però Atomic blonde va oltre. Oltre persino un esercizio di stile superbo, con montaggio e prospettive come punto di forza e sequenze di grande potenza visiva ed emotiva (per esempio, l’annegamento di Spyglass, figurina patetica e gogoliana di spia senza vocazione).
Il regista David Leitch, con l’apporto fondamentale di Charlize Theron, grandiosa Lorraine Broughton, e di un ottimo cast (James McAvoy, James Faulkner, Toby Jones, Eddie Marsan, John Goodman, Sofia Boutella), ci racconta come l’inevitabilità e la normalità di uccidere ed essere uccisi non solo si innestino nella carne dei protagonisti, ma a un certo punto si disconnettano da motivazioni reali diventando automatismo patologico (assai attuale), in un crescendo di violenza insostenibile e a suo modo ipnotizzante. Violenza, per inciso, non ritualizzata e citazionista, quindi inoffensiva, come quella che attraversa i film di Tarantino, bensì terribilmente materica, brutale, legata alla parte arcaica della mente e votata alla pura sopravvivenza fisica e all’eliminazione dell’antagonista.
Persino l’incontro fra Lorraine e Delphine, giovane agente francese spaventata e impreparata, pur avvolto dal lento trascolorare di una speranza possibile sullo sguardo di Lorraine (ed è un momento di grande recitazione), ha i caratteri dell’aggressione fisica; e la successiva scena di sesso fra le due ragazze si distingue per la disperazione appassionata e rapinosa, priva di orpelli, facendo svanire finalmente (ma era già successo anni fa in Il cigno nero) il luogo comune della dolcezza dell’amore saffico, ma con eleganza, senza scadere nell’insistita trivialità di La vita di Adèle.
Atomic blonde
regia di David Leitch
con Charlize Theron, James McAvoy, James Faulkner, Toby Jones, Eddie Marsan, John Goodman, Sofia Boutella
produz. USA 2017, distribuzione Universal Pictures