Dopo 28 anni di ritardo, il parlamento non ha saputo fare meglio di una legge compromissoria, brutta e confusa, la cui lunghezza fa trapelare la volontà di escludere piuttosto che includere tutte le forme della tortura contemporanea. I principali elementi critici sono il riferimento a un “verificabile trauma psichico”, che esprime una diffidenza verso le conseguenze della tortura sull’integrità psichica della vittima, e la possibile limitazione della fattispecie a comportamenti ripetuti più volte. Queste strettoie non favoriranno certo l’applicazione della legge ma dire oggi, come sostengono coloro che “meglio niente che poco”. che sarà inapplicabile pare un’affermazione eccessiva.
C’è poi l’altro aspetto del mancato prolungamento dei termini di prescrizione originariamente previsto: questo rischia di essere un ostacolo al rispetto dell’obbligo generale di punire adeguatamente la tortura. Detto questo, quell’espressione “meglio niente che poco” è del tutto legittima ma chi fa campagne per i diritti umani non può sottoscriverla. Il fatto che un reato specifico, che consente di chiamare la tortura con il suo nome anche in un tribunale italiano, senza doverla camuffare da reato generico, è un passo avanti utile.
Per quasi 30 anni nel nostro paese ha prevalso la posizione di chi voleva mantenere il silenzio del codice penale sulla tortura come mezzo per escludere la possibilità che questa avesse mai luogo nel nostro paese. La veemenza delle posizioni contrarie all’introduzione della tortura, emerse anche ieri in parlamento, è una conferma del fatto che la sua introduzione non è considerata”indolore” dai suoi principali detrattori.
In sintesi, la legge sulla tortura approvata ieri rappresenta un passo, purtroppo più piccolo di quello che avrebbe potuto essere, verso l’obiettivo che è comune a tutti: punire adeguatamente (e dunque anche prevenire) la tortura in Italia.