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Telecom, il fascino tardivo della rete pubblica

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La vicenda Tim-Telecom contiene nasconde dentro di sé elementi incomprensibili. Al netto dell’assurda buona uscita di Flavio Cattaneo. Vai a capire come mai nell’ultimo periodo piovono le dichiarazioni di diversi esponenti del governo che chiedono all’azienda di non disinvestire nella banda larga, e soprattutto vorrebbero riportare la macchina del tempo indietro: al 1997, quando fu privatizzato l’ex monopolista delle telecomunicazioni. Curioso davvero, non solo perché taluni di loro all’epoca erano in attività e non vivevano su Marte; ma pure per la palese contraddizione con i comportamenti degli anni successivi allo sconfortante ottobre. Quello che fu il colosso italiano dei telefoni è stato abbondantemente maltrattato ed è diventato territorio di caccia di curiose cordate e di disinvolti finanzieri, nel relativo disinteresse del potere esecutivo. Tanto da rendere agevoli le scalate “straniere”, da quella spagnola di Telefonica all’attuale avventura di Vivendi del bretone Bolloré. E ora, malgrado tutto e senza chiedere scusa, si chiede di “ripubblicizzare” la rete. Bello. Ma possibile? Se lo stato non si è avvalso, quando era credibile, dello strumento della golden share o del golden powers per frenare la de-nazionalizzazione, può riprendersi in mano la struttura fisica della comunicazione? Interessante, ma servirebbe innanzitutto una politica industriale e tecnologica che al momento non si intravvede. L’Italia occupa stabilmente il penultimo posto in Europa sull’argomento e l’accesso concreto all’era digitale da parte dei cittadini-utenti è tuttora basso. E si assiste impotenti ai licenziamenti, come gli ultimi –via mail- della Ericson. Laddove la moral suasion dei ministeri competenti è zero. Quindi, prima di ogni cosa servirebbe lo “Stato innovatore”.

Torniamo, però, al capitolo della privatizzazione. Allora, è bene ricordarlo a parecchi smemorati, c’era il problema serio dell’Euro. Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi optarono per l’entrata dell’Italia nella divisa comune e furono costretti a “far cassa”. Qui sta l’origine della storia. Tuttavia, non era scritto nel destino che dovesse andare così. Intanto, malgrado gli sforzi e la tenacia di Prodi, il capitalismo nostrano si rivelò chiuso e meschino, dando vita ad un “nocciolo duro” talmente esiguo da essere facilmente spazzato via dalla prima folata di vento. Vi erano altre opportunità, come l’ipotesi di costituire una public company con azionariato diffuso. Non solo. Un’alternativa praticabile, certamente allora e chissà adesso, poteva sostanziarsi nella privatizzazione liberalizzata dei servizi (in fase di vero e proprio boom nella seconda metà degli anni novanta), mantenendo nella sovranità pubblica la rete.Tra l’altro, la rete riguardava la parte fissa, mentre la trama delle cellule dei telefoni cellulari viveva

in piena competizione di mercato. La discussione e le ipotesi diverse non mancarono. Ad esempio, inviammo -Nicola D’angelo, oggi magistrato amministrativo e in quel momento consigliere giuridico del ministro (Maccanico), e il sottoscritto sottosegretario (scusate l’autocitazione)- una lettera a Romano Prodi suggerendo il doppio regime. Era una via interessante, che venne scartata perché le urgenze chiedevano una scelta drastica. Ci tornò nel secondo governo Prodi Angelo Rovati, inutilmente criticato. Tant’è che se ne riparla. Ma la storia non ammette nostalgie o repliche. Piuttosto, la riflessione sulle scelte sbagliate impone un cambio di rotta. Deciso e netto. Un conflitto, non qualche intervista.


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