Sofferenza da mobbing

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Mobbing deriva dal termine inglese “to mob” ovvero, enciclopedia Treccani, in sociologia e medicina del lavoro, indica una pratica vessatoria e persecutoria, spesso sconfinante in una forma di terrore psicologico, perpetrata dal datore di lavoro o dai colleghi (mobbers) nei confronti di un lavoratore (mobbizzato) al fine di emarginarlo o costringerlo a uscire dall’ambito lavorativo.

La Cassazione con la sentenza 10037/2015 ha fornito indicazioni ancora più chiare per riconoscere il mobbing, poiché non esiste una legge specifica in merito. Innanzitutto, gli atteggiamenti vessatori e persecutori devono avvenire sul luogo di lavoro e per un periodo di tempo congruo, non si può limitare a sporadici episodi, quindi gli stessi atti devono essere reiterati nel tempo e devono vertere: attacchi alla possibilità di comunicare; isolamento sistematico; cambiamenti delle mansioni lavorative; attacchi alla reputazione; violenze o minacce e devono essere esercitate da colleghi per rimarcare un dislivello, ossia un’inferiorità, con un intento persecutorio. In questo periodo vi dev’essere una correlazione con il malessere del mobbizzato: sintomi psicosomatici; errori e abusi; aggravamento salute; esclusione dal mondo del lavoro.

Claudio sta aspettando l’ultima sentenza, quella della Cassazione, sulla sua vicenda che ci testimonia con il suo racconto:

Lavoro da 40 anni con uno dei Gruppi bancari Italiani più importanti a livello mondiale (al momento, sono assegnato presso una struttura in Toscana del gruppo bancario). Nel maggio 2007, dopo oltre 25 anni di lavoro all’estero su incarichi proposti dal datore di lavoro, sono stato richiamato in Italia e sono stato oggetto di vessazioni di varia natura che mi hanno spinto a proporre varie cause civili (e penali) nei confronti del gruppo bancario. Si tratta, ovviamente di un caso di “mobbing” che, nel Codice Penale italiano non è previsto come reato! La prima causa (nei prossimi giorni ci sarà la sentenza della Cassazione, dopo aver vinto in primo grado e parziale accoglimento in appello, entrambi gli appelli sono stati promossi dal sottoscritto per palesi errori di interpretazione dei Giudici) è stata avviata nel 2008 per demansionamento e riduzione stipendio illegittima.

Sono in essere altri contenziosi per un mancato pagamento da parte del datore di lavoro per deposito mobili e beni personali impignorabili, contro mancato rimborso spese mediche sostenute per due ricoveri di mia moglie negli Stati Uniti (la mia famiglia, moglie e tre figli, abita negli Stati Uniti), per indebite trattenute sugli stipendi ed errato calcolo dei contributi previdenziali per l’attività svolta all’estero, errato calcolo del TFR, sovraindebitamento a causa del datore di lavoro e altri contenziosi riguardanti mancati rimborsi, dovuti al sottoscritto per contratto, delle spese universitarie dei figli dal 2002 a oggi. Persiste demansionamento che aggrava le condizioni di salute del sottoscritto. L’INAIL ha riconosciuto la malattia professionale (il nesso causale è stato confermato dalla stessa Autorità) con un danno biologico del 18% (da qui l’azione penale nei confronti della banca!).

Sto quindi vivendo momenti d’angoscia per problemi ricollegabili:

1. “In primis”, alla banca;

2. A vicende familiari (condizioni precarie di salute di mia moglie e del mio terzo figlio che vivono negli Stati Uniti);

3. Ad aspetti finanziari (questi ultimi causati nel gennaio 2008 dall’allora Ente per l’Assistenza Sanitaria, la cui attività è stata ripresa da un Fondo Sanitario nel 2010, per non aver rimborsato le spese mediche sostenute per i ricoveri di mia moglie – oltre 240.000 dollari – negli Stati Uniti per una seria patologia renale, nonostante tutto il nucleo familiare fosse coperto dalla polizza sanitaria anche all’estero).

Da notare che tutta questa situazione ha generato problemi di salute anche al sottoscritto che, a causa dell’illegittima riduzione della retribuzione operata dalla banca al mio rientro in Italia, non posso neppure curare.

L’8 febbraio scorso ero stato informato dal datore di lavoro sullo studio di una soluzione transattiva con continuità lavorativa. Il giorno 8 marzo avevo partecipato a un incontro con il Servizio Personale ma da allora non ho più avuto notizie nonostante i ripetuti solleciti.

Da oltre due anni la banca non ha rinnovato il contratto di sublocazione dell’appartamento che era stato assegnato al sottoscritto in Toscana e devo adesso “mendicare” un alloggio temporaneo presso amici e conoscenti, perché ovviamente, con le scarsissime risorse finanziarie, non posso permettermi la locazione di un appartamento.

La mia vicenda ha degli aspetti kafkiani che la banca conosce perfettamente ma purtroppo, solo a parole, mi ha proposto di “trovare una quadra”. Ancora non sono stato convocato a un colloquio risolutorio (e non so neppure se sarò convocato!). La mia situazione (e soprattutto quella della mia famiglia) è diventata ancor più precaria e, ogni giorno, riceviamo vessazioni da vari istituti di credito americani, oltre che dall’Università, ai quali, non certo per causa imputabile al sottoscritto, dobbiamo liquidare somme ingenti che non possediamo più e che sono state generate per la maggior parte dal mancato rimborso delle spese sanitarie citate all’inizio (alle quali ho dovuto far fronte nel 2008 con risparmi di una vita e con gli aiuti di Banche Americane), oltre a tutti gli altri aspetti oggetto dei contenziosi. Amici fidati mi hanno inoltre aiutato finanziariamente in questi ultimi anni e si aspettano, come giusto, il rimborso di tali somme. La banca dovrebbe chiedersi, umanamente parlando, come può un dipendente lavorare in maniera costruttiva nelle condizioni descritte?.”

Dagli atti processuali si legge che Claudio era stato relegato in una stanza, definita “di risulta”, dove c’era una fotocopiatrice che veniva utilizzata da tutti, in poche parole non aveva più un suo spazio dove esercitare con libertà e privacy la sua professione. In pochi anni, il lavoro, che garantiva una vita dignitosa per sé e la sua famiglia, si trasforma, a causa di decisioni prese dall’alto, in qualcosa che dà solo malessere e disagio. La carenza di una legge specifica sul mobbing non garantisce una pena e un risarcimento adeguato, ma l’intervento più volte della Cassazione sul tema, fa ben pensare che presto si possa arrivare a tale traguardo.


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