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Paolo Borsellino. Ucciso perché lasciato solo. Intervista a Letizia Battaglia

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“Il 19 luglio del 1992 era domenica e io ero da mia madre, a circa un chilometro da via D’Amelio. All’improvviso il boato che squarciò la città. Capii che era successo qualcosa di terribile; chiamai un taxi e, tremante con il sangue gelato, raggiunsi il luogo della strage. Davanti ai corpi dilaniati e agli edifici sventrati in uno scenario da Beirut, tutto mi sembrò vano: sentii l’inutilità di aver portato avanti delle lotte che non erano servite a niente. Ero deputato del Parlamento siciliano ma il senso di sconfitta mi fece prendere la decisione di lasciare la mia città. Partii perché sentivo che mostrare, documentare e testimoniare con la mia fotografia era stato inutile. Per questo lasciai Palermo per oltre un anno”.

Così Letizia Battaglia rivive quella mattina di 25 anni fa, quando una carica di tritolo uccise il magistrato Paolo Borsellino e gli uomini della scorta. L’emozione è forte per la fotoreporter che ha documentato e combattuto la mafia con i suoi scatti, mentre a Palermo infuriava la guerra per il predominio sul territorio di Cosa nostra negli anni ’70 e ’80. Editrice e politica, nota a livello mondiale, è stata la prima donna europea a ricevere il premio americano Eugene Smith. L’ultimo riconoscimento le è stato attribuito lo scorso 1° luglio dal Craf – Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia del Friuli Venezia Giulia. Le sue fotografie sono esposte in Italia e nel mondo.

“Pensai che a nulla più sarebbe servito documentare la morte di quegli eroi”, prosegue Letizia Battaglia. “Ecco perché, nonostante avessi al collo la macchina fotografica, come mesi prima alla morte di Giovanni Falcone, della moglie e degli uomini della scorta, decisi di non scattare. In questo momento rivedo nella mente una bella foto di Franco Zecchin che ritraeva un gatto che impazzito saltava come un pazzo fra le macerie. Lui sentiva la tragedia perché l’aveva vissuta”.

Due stragi che potevano essere evitate? Come reagì la città?

Oggi posso dire che tutti sapevano e nessuno ha fatto qualcosa per evitarle; questo è terribile. Tutto era annunciato. Ricordo gli ultimi appuntamenti pubblici nei quali i magistrati avevano incontrato la gente, consapevoli che la tragedia non poteva essere evitata e noi non potevamo fare niente. Questi pensieri hanno come riferimento l’immagine di Paolo Borsellino nella camera ardente allestita nel palazzo di Giustizia per accogliere la bara del collega Falcone. Camminava solo in fondo alla sala, con la sigaretta spenta fra i denti, avanti e indietro. Sono stati uccisi perché lasciati soli.

Esiste un’antimafia di facciata che copre interessi personali e di gruppi?

Io conosco solo l’antimafia vera del sindaco Leoluca Orlando, di “Libera” di don Ciotti, dell’ associazione “Antimafia 2000”, delle donne di “Mezzocielo” e del Centro siciliano di  documentazione Giuseppe Impastato. Credo che ci sia un’antimafia di interesse, ma io non la conosco, né la frequento. E’ un fenomeno che ritengo sia interno alla politica. La città e la società italiana sono divise; da un parte i furbi e dall’altra chi crede nella giustizia come una grande risorsa.

Cosa è cambiato in 25 anni ?

Il ricordo è forte del sacrificio di questi eroi, ma io non partecipo più alle commemorazioni. Seguo gli incontri del magistrato Nino Di Matteo, che da anni sta indagando e vuole fare chiarezza sulla trattativa fra Stato e mafia. Io gli sto vicino perché quello che sta facendo è giusto e non piace né alla politica né a Palazzo di Giustizia. Sappiamo che a Palermo da qualche parte è pronta la dinamite per lui.

Recenti sono gli atti vandalici contro la scuola intitolata a Giovanni Falcone: i giovani da che parte stanno? In cosa credono?

In questi anni io sto lavorando molto soprattutto con i giovani che partecipano numerosi ai workshop che tengo in diverse regioni d’Italia, dalla Calabria al Friuli, da Parma a Roma. Sono assetati di valori contro l’insignificanza dei messaggi che ricevono. Tanti mi scrivono e tentano, attraverso il pretesto della fotografia, di recuperare il rispetto e l’etica della vita. Fotografare significa vivere in un certo modo e io vorrei vivere a lungo, per farlo di più. I ragazzi e le ragazze cercano l’essenza del loro essere per andare avanti.

Dopo 25 anni dalle due stragi come si sente?

Come una reduce dal Vietnam, abbiamo ferite nel corpo e nella psiche, le energie spezzate, ma vogliamo ricostruire con molto pianto ma anche contando sul flusso di energia buona che scorra fra di noi. Accetto per questo di organizzare mostre delle mie fotografie e di mostrare così il mio lavoro di tanti anni. Penso sia giusto farlo, ma quello che mi interessa di più è incontrare i ragazzi e le ragazze che, assieme agli adulti, vogliono cambiare le cose, incontrare un nuovo pensiero.

Quali sono i suoi progetti?

A fine settembre si aprirà a Palermo il Centro internazionale di Fotografia, un mio progetto al quale lavoro da molti anni. Sarà uno spazio per la bellezza e l’energia positiva, ma anche per la solidarietà, la complicità e la gioia di appezzare la vita. Un luogo dove ricevere grandi fotografi dal mondo ma anche da dove esportare i nostri nel mondo.

Apriremo con una mostra dal titolo  “Io sono persona”, curata dalla photo-editor Giovanna Calvenzi. Seguendo la filosofia della Carta di Palermo, oltre 30 fotografi racconteranno gli sbarchi sulle nostre coste di migranti e la loro vita nei ghetti dei centri accoglienza e nelle città. Non sarà solo una mostra e un centro dedicato alla fotografia, ma un nuovo movimento culturale verso l’accoglienza e l’accettazione dell’altro. Sarà una rinascita.

foto copyright Shobha


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