Come Giovanni Falcone anche Paolo Borsellino cominciò a morire il 16 dicembre 1987. Ho udito personalmente queste parole dalla flebile voce di Antonino Caponnetto. Il pool antimafia, famoso e imitato in tutto il mondo, in Italia non ebbe vita lunga. Terminato il primo grado del maxiprocesso, Caponnetto ritorna nella sua amata Firenze e segna inconsapevolmente la fine del pool e l’inizio dell’irreversibile processo di morte dei due magistrati più esposti d’Italia nella lotta alla mafia. Ciò che ho udito da Antonino Caponnetto, purtroppo, è profondamente vero. Oggi tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura morale di Paolo Borsellino. Ripercorrendo le vicende della sua vita professionale, tuttavia, ci accorgiamo come la società civile, lo Stato, la magistratura, che forse ha più colpe di tutti, cominciarono a farlo morire proprio dopo quel 16 dicembre 1987. Non dimentichiamoci che non fu disposto neanche il divieto di parcheggio sotto la casa della madre, più volte chiesto, anche per iscritto, dal magistrato. Leonardo Sciascia sul “Corriere della Sera” lo bollò come un professionista dell’antimafia.
La lotta alla mafia sembra stia diventando un’ignominia e gli eroi dell’antimafia solo dei nomi, buoni per essere rispolverati in occasione dell’anniversario della loro morte con poche frasi di circostanza e tante lacrime di coccodrillo. Non posso più accettare e sopportare questa misera ipocrisia. Dobbiamo avere la forza e il coraggio di dire, soprattutto ai nostri giovani, che dopo la strage di via D’Amelio, si è scoperto che lo Stato trattava con la mafia. Grazie a Paolo Borsellino, siamo venuti a conoscenza di quel patto sciagurato. Lui, integerrimo e con alto senso del dovere, si era opposto con ogni mezzo legale, dichiarandosi indisponibile a un’intesa con i vertici di Cosa Nostra. Oggi i magistrati che hanno indagato su quella strage, su quella trattativa e sui mandanti esterni alla mafia, sono giunti alla conclusione che la principale causa della morte di Borsellino, fu rappresentata proprio dal suo rifiuto a scendere a compromessi con un’organizzazione criminale che stava mettendo a ferro e fuoco l’Italia. Ci saremmo aspettati una grande reazione da parte dello Stato, invece, non accade nulla.
Addirittura finiscono sul banco degli imputati proprio i magistrati che indagano, con l’accusa inconsistente di volere destabilizzare lo Stato perché la loro indagine ormai si è spinta troppo in alto rischiando di arrivare al cd. terzo livello. Condivido in toto le parole di Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo: “Credo che con forza dobbiamo pretendere la restituzione di una verità. Non una verità qualsiasi o una mezza verità ma una verità che dia un nome e un cognome a quelle menti raffinatissime, come mio padre le ha definite, che con le loro azioni e omissioni direi, hanno voluto eliminare questi due reali servitori dello Stato“. In uno Stato degno di questo nome l’agenda rossa di Paolo Borsellino sarebbe stata consegnata immediatamente ai magistrati perché sono certo che lì dentro ci sia tutta la verità sulla sua morte. Regna, invece, un silenzio assordante. Se lo Stato avesse voluto combattere seriamente la mafia, avremmo avuto Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo con pieni poteri, Pippo Fava, direttore del Corriere della Sera o di Repubblica, Ninni Cassarà, capo della Polizia, Giovanni Falcone, procuratore nazionale antimafia e Paolo Borsellino, Procuratore capo di Palermo. Ma così non è stato.
Spesso i pieni poteri sono dati a persone incapaci o se capaci, al servizio di poteri deviati. Paolo Borsellino aveva proprio ragione a dire che politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo. Attualmente, ma anche in passato, non ho constatato una politica che fosse in prima linea nella lotta alle mafie. Credo che uno degli ultimi politici di razza che abbia realmente combattuto le mafie sia stato Pio La Torre. Per avere un governo che lotti realmente le mafie, abbiamo bisogno di una classe politica che inizi a considerare tale battaglia prioritaria e lo dimostri con uomini integerrimi e leggi efficaci, poi spetta a noi cittadini pretendere verità e giustizia. La lotta alla mafia si fa a Roma, si fa a Bruxelles e a livello internazionale dimostrando un profondo senso dello Stato. Finché in Parlamento siederanno condannati, rinviati a giudizio o già sotto processo per reati gravissimi come la corruzione o quelli di stampo mafioso, le mafie sono al sicuro e la verità è lontana.
Vincenzo Musacchio, giurista e direttore scientifico della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise