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Paolo Borsellino 25 anni dopo: non possiamo accontentarci delle mezze verità

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Fra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio passarono 1367 ore che per molti versi rimangono ancora misteriose, ore in cui accaddero eventi che non conosciamo e che portarono al martirio di Paolo Borsellino, pienamente consapevole del destino a cui stava andando incontro. Quei giorni terribili sono stati ricostruiti nel 2012 da Giancarlo Licata, un grande collega che molto ci manca, in un libro e in un documentario (“1367, la tela strappata”) che pongono molte domande ancora senza risposta. Ecco come Licata ha ricostruito i giorni prima della strage del 19 luglio nel libro “Una rondine fa primavera”.

“Certamente a metà giugno del 92 Borsellino sapeva che sarebbe stato ucciso. E non si fermò, non se ne andò dalla Sicilia. Anzi, accelerò ogni tipo di attività per non lasciare nulla nei cassetti, confidando ad un a agenda rossa, mai più trovata, i sospetti che non erano ancora prove, le confidenze, gli elementi in suo possesso che avrebbe voluto far conoscere ai magistrati di Caltanissetta se lo avessero chiamato a testimoniare. La conferma della fine ormai prossima Borsellino la ebbe quando venne a sapere della ‘trattativa’ fra stato e mafia. Lui certamente si oppose. In quei giorni pentiti, informatori delle forze dell’ordine, carabinieri del Ros, confermavano, in modo angosciante, l’imminenza del nuovo attentato.

In quegli stessi giorni pezzi delle istituzioni fecero di tutto per non fare nulla, per lasciare solo quel magistrato, erede di Falcone, che di trattative, accordi, mediazioni e roba del genere non voleva sentir parlare. Non si diede corso alla richiesta della scorta di istituire la zona rimozione in Via D’Amelio, dove poi Borsellino e i suoi agenti furono uccisi; non si diede seguito alle informative che parlavano di un nuovo attentato; qualcuno decise di inviare per posta ordinaria la soffiata di un collaboratore della polizia che annunciava l’imminente morte di Borsellino (a Palermo arrivò cinque giorni dopo la strage del 19 luglio), non si badò a un dispaccio del Ros sull’arrivo a Palermo del tritolo, che poi sarebbe servito a ucciderlo.

Borsellino doveva morire? Perché non è stato fatto nulla e soprattutto perché il magistrato è stato lasciato solo? Perché, dopo, fu messo in atto un complicato e professionale depistaggio confezionato dall’ex questore di Palermo La Barbera che fu poi accertato fare parte dei servizi segreti? Chi ha in qualche cassaforte l’agenda rossa che sparì dal luogo della strage?”

Sono passati cinque anni da quando Giancarlo poneva queste domande, come hanno fatto altri colleghi con inchieste documentate e raccolta di testimonianze. Eppure siamo ancora alle “mezze verità”, come le ha giustamente chiamate la figlia di Paolo Borsellino, Fiammetta. I depistaggi di quei drammatici giorni del 1992 devono avere nomi e cognomi, e sappiamo, per bocca del presidente del Senato Piero Grasso, che “ci sono state delle presenze esterne alla mafia.” Un paese di mezze verità non è un paese libero, una democrazia che per 70 anni, da Portella della Ginestra in poi, non ha chiarito i rapporti fra la mafia e i tutti i poteri – istituzionali, politici, economici – non è una democrazia compiuta e mai come in questi anni ce ne stiamo rendendo conto.


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