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Morto Ciro Cirillo, protagonista di una inquietante pagina della nostra recente storia

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Il nome di Ciro Cirillo, ormai, dice qualcosa forse solo a chi quegli anni faceva il mestiere di cronista; per gli altri occorre uno sforzo di memoria: si parla di fatti accaduti quasi quarant’anni fa. Sono le 21,45 del 27 aprile del 1981 quando Cirillo, assessore regionale campano, esponente di punta di quella Democrazia Cristiana legata a filo doppio ad Antonio Gava, viene sequestrato a Torre del Greco da un commando di cinque appartenenti alle Brigate Rosse capeggiati da Giovanni Senzani. Cirillo viene poi rilasciato all’alba del 24 luglio 1981: un sequestro che dura 89 giorni. Per Cirillo, a differenza di Aldo Moro, viene avviata e portata a termine una vera e propria trattativa con i terroristi. Una trattativa che coinvolge politici, servizi segreti, rappresentanti delle istituzioni.

Una vicenda oscura che porta a un altro non meno inquietante “affaire”: quello di Enzo Tortora.

Quest’ultimo caso l’ho seguito come amico, e non solo come giornalista, fin dai primi giorni. Il “caso” Tortora, come ancora oggi lo si definisce: ma più propriamente  il caso di centinaia di persone arrestate (il “venerdì nero della camorra”, siamo nel giugno del 1983); poi, ma dopo tanto tempo, si è “scoperto” che tantissimi erano finiti in carcere per omonimia o altro tipo di “errore” facilmente rilevabile prima di commetterlo; e molti altri, Tortora compreso (e anche Franco Califano, anche lui coinvolto in quell’“affaire”) vengono riconosciuti innocenti. Si era voluto dare credito, senza cercare alcun tipo di riscontro, a personaggi come Giovanni Pandico, Pasquale Barra ‘o animale, Gianni Melluso, detto “cha-cha”. Ho visto decine e decine di volte le immagini di quel maxi-processo, per “montare” i miei servizi, e decine e decine di volte quella convinta requisitoria del dottor Diego Marmo, che a un certo punto pone una retorica domanda: “…Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza?”.

“Come” sono andate le cose lo sanno tutti, ormai; è il “perché” sia potuto accadere quello che è accaduto, che merita, una riflessione, e ancora suscita inquietanti interrogativi, a cui seguono non meno inquietanti risposte. Domande e risposte he ci riportano a uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani; rapimento cui segue una vera trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo. Per la vita di Cirillo viene chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova, anche se durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”.

Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta è costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo: sono tutti morti ammazzati: da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo, a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice, che ha un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e, tra gli altri, Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, mai più ritrovato.

Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli. Che l’arresto di Tortora costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. Lo si sia fatto in buona o meno buona fede, cambia poco. Le “prove”, per esempio, erano la parola di Giovanni Pandico, camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo lo interrogano diciotto volte, solo al quinto si ricorda che Tortora è un cumpariello; e Pasquale Barra: un tipo che in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia per sfregio l’intestino…Con le loro dichiarazioni danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. C’è poi un numero di telefono trovato in un’agendina di una convivente di un capo clan. Sotto la T, leggono Tortora; in realtà quel nome corrisponde a Tortona, riscontrarlo è facile, basta comporre il numero. Non lo fa nessuno.

A legare il riscatto per Cirillo raccolto i costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione Antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale.

E’ in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”. Nessuno dei “pentiti” che ha accusato Tortora è stato chiamato a rispondere per calunnia. I magistrati dell’inchiesta hanno fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Il dottor Marmo dice di aver agito in buona fede, non c’è motivo di dubitarne. Ma la questione va ben al di là della buona fede di un singolo. Stroncato dal tumore, Enzo ha voluto essere sepolto con una copia della “Storia della colonna infame”, di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”.


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