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Le pensioni, i vitalizi, il degrado e l’ingiustizia

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Per colpa del populismo complementare di PD e M5S è tornato in auge il tema dei vitalizi che fa il paio con la risibile battaglia contro le pensioni d’oro, i cosiddetti “privilegi della casta” e altre armi di distrazione di massa con le quali lor signori stanno avvelenando da anni il dibattito pubblico.
Il punto è il seguente: mettere in discussione i diritti acquisiti significa mettere in discussione la tenuta e il concetto stesso di Stato di diritto, la dignità e il prestigio delle istituzioni, il valore della buona politica e anche, ed è la cosa più grave, l’onore di persone che nella vita non hanno rubato un solo centesimo e che, al contrario, hanno dedicato la propria esistenza a ideali e princìpi nobili, spesso rinunciando anche a guadagni assai superiori in ben più lucrosi enti, aziende od organizzazioni di varia natura.
E così, per risparmiare una parte dei 222 milioni erogati ogni anno ai circa 2.600 ex parlamentari che percepiscono il vitalizio secondo il vecchio schema retributivo, cioè una cifra irrisoria se la si confronta con i costi complessivi della macchina statale e della spesa pubblica nel suo complesso, si pensa di compiere un atto di macelleria sociale, dettato unicamente dall’invidia, dall’odio e dal desiderio pre-elettorale di raccattare in maniera bieca quattro miserabili consensi.
La conseguenza di questa brillante operazione, palesemente incostituzionale, dunque destinata ad arenarsi al Senato o, peggio ancora, ad essere cassata dalla Consulta, sarà quella di portare ulteriore consenso al M5S, in un inseguimento al ribasso del populismo più deteriore che già durante la campagna referendaria ha toccato punte notevoli.
Non solo: se questo scempio dovesse essere approvato in via definitiva, costituirebbe un precedente gravissimo, attraverso il quale sarà sin troppo facile per i demagoghi di turno andare poi ad intaccare le pensioni di coloro che avevano diciannove anni, sei mesi e un giorno di contributi versati ai tempi dell’approvazione della riforma Dini, minando definitivamente il welfare familiare che ha fatto sì che la crisi economica tuttora in corso non si trasformasse in un’emergenza sociale.

In pratica, stiamo tornando surrettiziamente alla colpa di esistere, di avere una determinata carta d’identità, di aver potuto beneficiare di regole più giuste e sensate rispetto a quelle attuali e di aver stipulato con lo Stato un contratto sociale che, se dovesse venire meno, autorizzerebbe la moltitudine a sostenere l’anarchia, con tutte le conseguenze del caso che sempre derivano da queste forme di degrado individualista e anti-comunitario.
Al che, malignamente, si insinuano alcuni fondati dubbi, tra cui quello che i fautori di queste riforme siano animati soltanto, come detto, da una sorta di invidia livida nei confronti di quei colleghi ed ex colleghi che hanno avuto la fortuna di nascere ed agire prima che la deriva liberista, disumana e anti-sociale dell’ultimo trentennio trasformasse dei sacrosanti diritti in “intollerabili privilegi”, in seguito ad una campagna propagandistica squallida che più squallida non si sarebbe potuto.
Inoltre, è doveroso sottolineare che il risparmio inesistente che deriverebbe da questi tagli, computabile in pochi centesimi al mese per l’eventuale larga platea di beneficiari del suddetto, dunque nulla, meno che mai un meccanismo in grado di sanare la sperequazione generazionale che pure è sotto gli occhi di tutti, questa millantata redistribuzione economica che tale, in realtà, non è, sarà solo un altro gradino percorso verso il basso, lungo una scala che conduce dritti verso il baratro di una politica inconsistente, screditata, priva di visione, di intelligenza, di comprensione della complessità dei fenomeni, di respiro ampio sulle cose del mondo e di quel minimo di onorabilità di cui invece oggi avrebbe, più che mai, bisogno.
A furia di slogan, frasi fatte, formule magiche e luoghi comuni, di richieste di palingenesi e di rinnovo sostanziale dei gruppi dirigenti, al fine di costituire una sorta di “homo novus” adatto alla società contemporanea, a furia di devastare qualsivoglia principio di umanità e di buonsenso, di premere il pedale sull’acceleratore della semplificazione e del consenso a buon mercato e di dar vita ad una campagna elettorale senza soluzione di continuità, stiamo rendendo un mestiere che dovrebbe essere l’architrave della nostra società un qualcosa cui le componenti migliori e più istruite della medesima non aspirano più.

E così, dopo aver abolito il finanziamento pubblico ai partiti, aver minato alle fondamenta l’articolo 67 della Costituzione e aver attentato sistematicamente alla funzione legislativa del Parlamento, di fatto svuotandolo di senso, ora è partito l’assalto finale alle retribuzioni e ai vitalizi, mettendo a repentaglio due princìpi cardine della democrazia liberale nonché l’idea stessa che, proprio perché si occupa della vita di tutti i cittadini, la politica debba essere accessibile alla collettività nel suo insieme e non unicamente ad un notabilato di stampo ottocentesco.
Temo, con amaro dolore, che se leggesse queste argomentazioni, la maggior parte dei soggetti che ripete a pappagallo gli slogan triti e ritriti in voga ormai da anni nemmeno le capirebbe.
Così abbiamo ridotto le istituzioni di Calamandrei e Pertini, inconsapevoli di starsi consegnando alla più assoluta irrilevanza, in attesa che un nuovo Duce, con le sembianze probabilmente di un insieme di oligarchie finanziarie, le definisca, tramite un proprio scagnozzo, un “bivacco di manipoli”. La sordità e il grigiore, invece, già ci sono, e basta ripercorrere mentalmente le tappe di questa legislatura per rendersi conto che, continuando di questo passo, il Paese non avrà un domani.


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