La suggestione rinascimentale del Chiostro Del Bramante a Roma è una nicchia preziosa nel cuore della città. Un biglietto da visita prestigioso per l’allestimento di qualsiasi mostra. Ogni evento che si consuma al suo interno è quasi sempre un successo. Così è avvenuto per l’esposizione “Jean-Michel Basquiat: New York City”, considerando anche il pienone di pubblico e di botteghino. Però abbiamo delle perplessità che vorremmo esprimere: intanto, per quello che ci è parso un percorso espositivo abbastanza approssimativo e non completamente esaustivo di informazioni, anche di carattere didattico, spesso sottovalutate o peggio ancora snobbate, fondamentali invece per accompagnare il grande pubblico nella comprensione del mondo degli artisti. A maggior ragione, se si tratta di artisti contemporanei, catapultati dall’anonimato al firmamento delle star, in tempi brevissimi, come è stato per Basquiat.
Il rischio è che la sua grandezza possa essere offuscata dalla celebrità. Il suo messaggio artistico di rottura e di grande innovazione, non si può scollegare dalla ricerca minuziosa del suo studio sui geni artistici del passato, fonte ispiratrice della sua opera. Lui sa poi come ricomporli con la sua pittura dalla forza primitiva e poetica nei suoi collage straordinari e dal ritmo frenetico, su tele fitte di costellazioni di pensieri, disegni, poemi, giochi di parole, fumetti, provocazioni e riflessioni filosofiche di grande respiro.
Ci sembra che la tortuosità degli spazi espositivi, dai volumi angusti, se pur impregnati dal grande fascino del Chiostro cinquecentesco, più indicati per mostre di tipo intimistico, vanno stretti al caos esplosivo di colori, ipertesti, alla visionarietà delle emozioni che sublima oggetti e soggetti pescati dalla quotidianità. I suoi pannelli che esprimono tutta la conflittualità del suo vissuto newyorchese, lontanissimo dal “sogno americano” dell’uomo qualunque che diventa qualcuno, hanno bisogno di spazio e di luce per rivelare tutte le ombre nascoste fra le collisioni di sentimenti e le scintille stellari che relazionano i suoi segni. Ma ogni incontro con Basquiat è un arricchimento da non mancare e le 100 opere, provenienti dall’importante collezione Mugrabi, sono un’occasione per riempirci gli occhi della sua arte e per saziarci della bellezza potente dei sui colori primari.
Era al culmine del successo, acclamato dalla critica internazionale come “Enfant Prodige dell’Avanguardia”, quando a 27 anni il 12 agosto del 1988, nel suo appartamento di Great Jones Street, un micidiale cocktail di droghe gli spappolò il cuore. “Gli spettri si possono cacciare attraverso l’arte” per superare l’abisso che esiste fra la precarietà dell’esistenza e il desiderio di viverla, cancellando così gli incubi, che spesso riaffioravano nel suo inconscio e si riflettevano nello specchio impietoso della sua esistenza difficile.
“Disegno come quando ero bambino”, spiegava, “non metto paletti, non penso all’arte quando dipingo, ma alla vita”. Usava le pennellate come fossero parole. Le sue opere sono “vive, vissute”: con i suoi quadri aveva un rapporto fisico, ci dormiva, ci camminava sopra. Nasce autodidatta, i suoi primi lavori sono graffiti impressi sui muri di Manhattan, firmati con l’acronimo SAMO (Same Old Shit). Fu sua madre ad avvicinarlo all’arte; fin da bambino trascorrevano ore nei principali musei di New York e, quando per un grave incidente restò mesi immobilizzato in un letto d’ospedale, sfogliavano insiemei libri sulla storia della pittura, le raccolte dei disegni di anatomia di Leonardo e il libro scientifico Gray’s Anatomy, insieme agli album dei suoi fumetti preferiti.
Nasce così il suo mix di parole, archetipi immaginari, riproduzione dei classici, astrazioni e elementi figurativi con una essenzialità di sintesi, che non hanno precedenti. Inventa un “Neo Impressionismo” in opposizione con la pittura “fredda, algida, seriale” della Pop Art, tanto amata in quegli anni dai galleristi e dai mercanti d’arte. La pittura di Basquiat è frontale, come i suoi adorati cartoni animati di bambino, con il rifiuto netto della prospettiva, anche come negazione del concetto di Tempo. Per lui esiste solo l’immediatezza, come una frase musicale, una “svisatura” del suo amato Free Jazz. “Il mio lavoro”, diceva, “non è mai uguale, sarebbe come chiedere a Miles Davis com’è il suono della sua tromba”. Basquiat è un musicista per immagini, dai pochi e squillanti tratti, dall’uso saturo del colore, spesso “sgocciolato”. La sua è un’arte “epica”, quando introduce nei quadri i suoi eroi neri: Billie Holiday, Malcom X, Charlie Parker, Miles Davis, Jesse Owens, Dizzy Gillespie, Louis Armstrong e Cassius Clay.
Riusciva a raccontare il mondo brutale e sottomesso dei diseredati e degli emarginati, e l’arroganza della società bianca dominante, con l’orgoglio della sua cultura di negro e raffinato intellettuale, che neanche soldi e successo riuscirono ad affrancare completamente. Raccontava con malinconica ironia della sua difficoltà durante gli anni Ottanta, inneggianti al “Dio denaro”, per fermare un taxi, di notte, all’uscita di un locale, nonostante fosse già famoso.
Il suo mondo pittorico, fatto di visi, maschere, simboli, parole legate fra loro come un intreccio, suscita emozioni. Le sue visioni e ossessioni, ricche di riferimenti ai capolavori dell’arte, ci permettono di penetrare nel senso di consapevole inquietudine dell’artista e ci avvicinano a quella spontaneità, libera da condizionamenti, al suo “primitivismo”, ricco di umanità e di valori essenziali.
Figlio del superamento dei sistemi ideologici, imbevuto di memoria romantica e delle innovazioni tecnologiche, in una sintesi moderna tra sacro e profano, la sua opera ci appare un’arte istintiva e persuasiva, un’alchimia materiale e spirituale che con parole e immagini, come una vera e propria poesia di strada, di rebus misteriosi, denunciano le difficoltà dell’esistenza interiore e le ingiustizie di una società discriminatoria classista e razzista. Con le sue frasi smozzate, sincopate, messaggi criptici per una generazione che si sentiva ai margini di una società votata già allo “yuppismo”, una pittura dai cromatismi aggressivi, un linguaggio arricchito anche da musica, scenografie, riferimenti erotici, immagini fumettistiche e pubblicitarie, Basquiat delineava i contorni della sua vita, che voleva essere “distruttiva”, per diventare innovazione creativa e arrivare subito nell’immaginario delle nuove generazioni e che ancora oggi è profetica.
Accanto ai corpi scheletrici e ai simboli disarticolati del potere, i “veri Demoni” della civiltà capitalistica, nella quale comunque “navigava”, ecco avanzare i suoi eroi neri con le corone in testa. La sua solitudine interiore, prepotente e angosciante lo porterà alla morte precoce, come gli altri “eroi giovanili” di quel secolo “veloce” che è stato il Novecento: James Dean, Janis Joplin, Jim Morrison, Jimmy Hendrix e, due anni più tardi l’amico e compagno d’arte Keith Haring.