Fatta la doverosa premessa che la “sòla”, a Roma e dintorni, è sinonimo di “fregatura”, il rinvio della discussione sullo ius soli all’autunno, e chissà se l’impegno verrà mantenuto, è il sintomo che quando le istituzioni italiane si trovano di fronte a serie riforme nel campo dei diritti umani, tentennano.
Il partito di maggioranza ha tentennato, per l’appunto, di fronte alla contrarietà dei partner di coalizione. Seppure “temperata” (come del resto “temperate” erano state la legge sulle unioni civili e quella, recentissima, sulla tortura), la legge per il momento non si ha da fare.
In questi giorni ne abbiamo lette e sentite tante. La più diffusa è che lo “ius soli” sarebbe l’ennesimo fattore di attrazione per donne, in viaggio verso il nostro paese su barconi inadatti alla navigazione partiti dalla Libia, pronte a partorire prossimi cittadini italiani. Nessuna menzione per la circostanza che lo stupro, durante il percorso verso la Libia e poi nei centri di detenzione libici, sia la regola.
Pronti a dare retta al primo post che s’incrocia, in molti hanno creduto che le cose stiano esattamente così.
Così una norma elementare di civiltà, che permetterebbe di avere la cittadinanza del paese in cui sei cresciuto e dove hai studiato e di cui padroneggi perfettamente la lingua, che consentirebbe di affrancarti da una falsa “heimat”, da un ipotetico e astratto legame di sangue verso un paese dove non sei cresciuto e che trovi sempre più estraneo da te, viene rimandata per paura di perdere consenso.
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