“Certi uomini vedono le cose come sono e dicono: “Perché?”. Io sogno cose mai esistite e dico: “Perché no?” (George Bernard Shaw)
Ridateci il futuro! È l’urlo che si leva dovunque in Italia: dal Sud nuovamente abbandonato alle periferie neglette, dai disumani Cie alle Ong bistrattate, dal mondo del lavoro in affanno a quello del volontariato e così via. Quel grido vale anche per l’informazione. Un micidiale mix composto da crisi economica decennale, rivoluzione digitale, mancanza di strategie editoriali e molteplici conflitti di interesse, si è abbattuto sull’editoria creando la tempesta perfetta. Decine di testate hanno chiuso i battenti, migliaia di giornalisti sono stati espulsi dal processo produttivo, migliaia di giovani si trovano in condizioni di inaccettabile precarietà. Tutto questo è ormai alle nostre spalle e reiterare i cahiers de doléances del dissesto rischia di diventare un alibi per non affrontarlo. È arrivato il momento di guardare avanti e osare proponendo qualche via d’uscita.
Bisogna ridisegnare un ecosistema dell’informazione che coniughi le potenzialità del digitale con una nuova professione. Ma il punto di partenza è sempre lo stesso: le notizie non sono una merce; sono il tessuto connettivo di una democrazia, sono gli strumenti che modellano la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica, la cartina di tornasole di una corretta convivenza civile.
Il tema non è puramente industriale, ma eminentemente culturale, nel senso più ampio e profondo del termine. Come abbiamo bisogno di una nuova coscienza ambientale, di un diverso e più solidale approccio al tema delle migrazioni, di uno sviluppo sostenibile e non improntato unicamente al profitto (dieci anni di crisi ci hanno insegnato qualcosa?), così necessitiamo di un nuovo approccio intellettuale che coinvolga cittadini e giornalisti rinsaldando, o meglio ricostruendo, quel patto fra informazione e società che si è andato sfibrando.
L’ECCEZIONE CULTURALE – Se dunque l’informazione è un bene pubblico, come tale deve essere trattato. Vale a dire che deve godere di uno statuto speciale, una sorta di “eccezione culturale” che la metta al riparo dalla speculazione dei conflitti di interesse, che ne difenda il valore civile, che eviti in futuro di privare interi territori, comparti produttivi, aggregazioni sociali degli strumenti di lettura della realtà.
Tutto ciò è ancor più urgente in tempi di “dittatura dell’algoritmo”, di concentrazioni multinazionali e di social utilizzati come cavalli di troia per orientare scelte politiche (vedi le elezioni presidenziali negli Usa). Un’”eccezione culturale” che si inscriva nell’articolo 21 della nostra Costituzione.
Avevamo sperato che la riforma dell’editoria (che vede la luce in questi giorni) fosse improntata a questi valori di fondo. Dobbiamo constatare che, ancora una volta, hanno prevalso asfittici interessi di parte (quegli degli editori) per altro nemmeno affiancati e sorretti da credibili modelli di business, da capacità di innovazione e sguardo lungo.
Così stando le cose si rischia di ridurre la riforma a un mero conteggio ragionieristico di quanti giornalisti prepensionare e di come precarizzare ancor più un settore che di precariato rischia di soffocare.
Meglio sarebbe agire più incisivamente sulla crescita di una “cultura dell’informazione” rivolta ai giovani, su una alfabetizzazione digitale (più della metà delle persone che accedono a internet non ha nemmeno le competenze di base) che colmi il gap fra generazioni, sull’informazione di prossimità come strumento di ricostruzione di comunità solidali e non identitarie.
UN PIANO MARSHALL PER L’INFORMAZIONE – Chi se non lo Stato può farsi carico di un progetto che ha i cittadini, non i consumatori, come destinatari primi? Servirebbe dunque un vero e proprio “piano Marshall per l’informazione” fatto non di finanziamenti a pioggia, ma di selettivi aiuti che si concentrino sull’ammodernamento delle infrastrutture, sugli investimenti in nuovi prodotti editoriali, sulla crescita di professionalità adeguate (evitando con la formazione e la riqualificazione la macelleria sociale di intere categorie). Si dovrebbe agire inoltre più sul lato della domanda. Penso a forme di detrazione o detassazione per l’acquisto di prodotti editoriali, digitali o meno, accompagnato da campagne di sensibilizzazione.
Riformare il mercato favorendo chi produce occupazione stabile e qualificata. Separando definitivamente il no profit dall’attività imprenditoriale che mira, lecitamente, a fare utili e detassando quelli reinvestiti. Un modo per impedire, fra l’altro, un processo carsico e pericolosissimo: l’espandersi delle mafie nel settore editoriale. Più di un segnale indica che la malavita organizzata, complice la crisi, sta mettendo le mani su piccole e medie testate, organizzando un’informazione addomesticata che serve a mantenere il consenso sul territorio.
GIORNALISMO COSTRUTTIVO – Il ragionamento fin qui esposto sarebbe monco se non dicessimo che anche i professionisti dell’informazione devono fare la loro parte. Troppo spesso il confine deontologicamente invalicabile fra interessi, specie politico-economici, e verità dei fatti è stato oltrepassato. Troppo spesso ci siamo rifugiati nell’acquiescenza al “pensiero unico”. Troppo spesso abbiamo abdicato al dovere di informare correttamente. Troppo spesso abbiamo rinunciato a governare i processi digitali, aprendo così le porte a un’informazione in cui la quantità ha schiacciato la qualità.
Perché non porre attenzione a fenomeni che già stanno prendendo corpo e che potrebbero riannodare i fili del dialogo interrotto con i cittadini. Penso al cosiddetto giornalismo costruttivo: “O giornalismo delle soluzioni che si basa su un nuovo approccio alla professione giornalistica tradizionale, ponendo un accento maggiore alle soluzioni piuttosto che ai problemi descritti nei fatti e nelle storie raccontate. L’idea di un giornalismo costruttivo nasce dall’esigenza, condivisa da un gruppo internazionale di esponenti del mondo dell’informazione, di promuovere una pratica professionale che, pur rimanendo accurata, adeguata cioè agli standard del giornalismo tradizionale e quindi anche critica e di denuncia, sia impegnata nel riportare informazioni e raccontare storie secondo modalità “costruttive”, ovvero orientate a mettere in luce soluzioni per i problemi denunciati, sensibilizzando e coinvolgendo l’audience attraverso la promozione di un dibattito concreto e propositivo”. (dal sito www.buonenotizie.it)
Senza avere la presunzione di esaurire il ventaglio di proposte penso che queste potrebbero essere alcune delle idee forti su cui far partire una campagna nazionale che veda le istituzioni giornalistiche, le associazioni della categoria, le scuole di giornalismo, ma più in generale l’associazionismo e i movimenti civili, cooperare per la rinascita di questo bene comune essenziale che è l’informazione al servizio del cittadino.